Si esulta nei palazzi e nei comitati, ma il popolo resta a casa. Forse in questi casi sarebbe più saggio una riflessione profonda sullo stato pietoso del rapporto con tutti gli elettori, piuttosto che l’ostentazione di un consenso dimezzato. Non basteranno le parole o le promesse di buona politica: serviranno sobrietà, coerenza, gesti concreti. La fiducia è come il tempo: quando la perdi, non la ricompri. La riflessione di Raffaele Bonanni
Oggi il campo largo brinda in Toscana. Eugenio Giani è stato riconfermato alla guida della Regione e il centrosinistra canta vittoria. Ma è una vittoria amara: alle urne si è presentato appena il 47% degli aventi diritto. Meno di un cittadino su due. Un dato che non si può archiviare con leggerezza. Nel 2020 aveva votato il 63%, alle politiche del 2022 il 70%. In tre anni la Toscana, terra civicamente vivace, storicamente partecipe, orgogliosa delle proprie radici, ha perso sedici punti di partecipazione. Un’emorragia silenziosa che svuota di senso la festa elettorale e racconta di un popolo stanco, distante, disilluso.
Si esulta nei palazzi e nei comitati, ma il popolo resta a casa. Forse in questi casi sarebbe più saggio una riflessione profonda sullo stato pietoso del rapporto con tutti gli elettori, piuttosto che l’ostentazione di un consenso dimezzato. Perché i numeri, impietosi, non mentono: chi ha ottenuto il 30% dei voti rappresenta appena il 15% dei cittadini; chi il 10%, ne vale il 5. La matematica, in politica, sa essere più spietata di qualunque opposizione. Non è una vittoria, è un avvertimento.
La politica si illude di governare, ma non governa più le coscienze. L’astensionismo non è più un fenomeno marginale: è una forma di dissenso strutturale, la nuova opposizione silenziosa che svuota le urne e delegittima i vincitori. Il cittadino che non vota non si riconosce più in nulla, né in chi comanda, né in chi protesta. È la prova di una frattura profonda, culturale prima che politica. La medesima situazione è emersa anche nelle elezioni regionali calabresi, marchigiane e valdostane con percentuali al di sotto del 50% e segnalano anch’esse un allarme che non si intende sentire.
Intanto l’Italia si divide su tutto, ha smarrito anche la responsabilità di essere unita sugli interessi vitali della Nazione, deviata com’è dalla tifoseria politica e da legami oscuri di talune componenti politiche con potenze non amiche dell’Europa e dell’Italia. Le piazze si riempiono di rabbia, le urne si svuotano di fiducia. È lo stesso malessere che cambia linguaggio ma non sostanza. La politica, ridotta a tifo e slogan, ha smarrito la sua funzione più alta: rappresentare, mediare, capire. È diventata un palcoscenico di reazioni istantanee, più attento ai sondaggi che alle persone. E quando la politica non ascolta più, la società parla con il silenzio, un silenzio che pesa come un verdetto.
C’è ancora una cultura capace di ricucire questo strappo? Forse sì, ma dovrà tornare a coltivare la terra arida della fiducia. Non basteranno le parole o le promesse di “buona politica”: serviranno sobrietà, coerenza, gesti concreti. La fiducia è come il tempo: quando la perdi, non la ricompri. Bisognerà dissodare, non conquistare. Dimostrare, non dichiarare. Perché i cittadini che oggi non votano sono i nuovi San Tommaso della Repubblica: crederanno solo quando vedranno. E quando vedranno, forse torneranno. Ma se non vedranno nulla, non resterà più nessuno a tornare — e la democrazia, lentamente, avrà smesso di respirare.