La visita di Ahmed al-Sharaa alla Casa Bianca segna il ritorno di Damasco sulla scena internazionale dopo decenni di isolamento. Silvia Carenzi (Ispi) sottolinea che il riavvicinamento offre un’occasione per ridefinire la posizione siriana e per testare un nuovo equilibrio tra politica interna, riconciliazione e diplomazia regionale
La visita di Ahmed al-Sharaa alla Casa Bianca segna una svolta storica per la Siria e per Washington. Ex combattente di al-Qaeda contro le forze statunitensi in Iraq, due decenni fa, Sharaa è oggi il primo presidente siriano a essere ricevuto nello Studio Ovale dal 1946. Tra le varie cose, l’incontro con Donald Trump ha avviato l’ingresso di Damasco nella Coalizione internazionale anti-Is, composta da 89 Paesi (tra cui l’Italia), e in generale sancito la fine di un lungo periodo di isolamento diplomatico.
Da quando ha rovesciato Bashar al-Assad, Sharaa ha puntato a ricostruire la credibilità siriana. Il suo governo, formato anche da ex membri della formazione islamista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, formata in sostituzione della fazione qaedista che Sharaa stesso aveva guidato all’interno della guerra civile), promuove riforme economiche e apertura verso l’esterno. La sospensione di gran parte delle sanzioni occidentali – con l’eccezione di quelle su Russia e Iran – mostra la prudente disponibilità americana a investire sulla sua leadership.
Rimangono tuttavia forti interrogativi. Le promesse di pluralismo e riconciliazione non hanno ancora trovato riscontro concreto, e la ripresa economica resta fragile: la Banca Mondiale stima oltre 200 miliardi di dollari per la ricostruzione. Per Sharaa, l’intesa con Washington è una scommessa: può ridare centralità alla Siria, ma al prezzo di una crescente dipendenza politica e militare dagli Stati Uniti.
Silvia Carenzi, ricercatrice associata dell’Ispi che segue conflitto/post-conflitto in Siria, osserva che “per entrambi i Paesi, questo riavvicinamento rappresenta un’opportunità significativa”. Dopo decenni di isolamento, viene sancito il pieno ritorno della Siria sulla scena globale e la sua rinnovata legittimazione internazionale, “soprattutto dopo il discorso tenuto da al-Sharaa alle Nazioni Unite lo scorso settembre”. “Dall’altra parte – continua – gli Usa ritrovano un interlocutore in un Paese il cui regime era considerato un paria fin dai tempi della salita del Baath al potere”.
Affinché questo riavvicinamento sia sostenibile anche nel lungo termine, il nuovo governo siriano dovrà navigare sapientemente i delicati equilibri che caratterizzano la transizione, in primis sul piano interno, ma anche in quella complessa intersezione tra dimensione domestica e internazionale, suggerisce l’esperta. “Un esempio è l’inclusione della Siria nella coalizione anti-Isis: un’adesione che, secondo recenti report e dichiarazioni ufficiali, sembrerebbe avere natura prevalentemente politica (coordinamento e condivisione di intelligence) e non militare”. Un articolo di Al-Monitor di qualche settimana fa riportava che Damasco avrebbe chiesto a Washington di porre fine alle incursioni militari contro membri o sospetti membri dell’Isis, “un elemento coerente con il sentimento di una parte della popolazione, contraria a operazioni condotte da forze straniere e favorevole a una gestione nazionale dei raid antiterrorismo”.
Sul piano interno? “Una delle principali sfide sarà quella di ricucire le profonde fratture sociali lasciate dall’eredità degli Assad e da anni di guerra civile, nonché di prevenire episodi di violenza intercomunitaria prima che possano degenerare. Queste tensioni si sono già manifestate sulla costa siriana e a Suwayda, rispettivamente lo scorso marzo e lo scorso luglio. Legate a doppio filo alla pacificazione sociale, restano aperte le questioni della transitional justice e della responsabilità per i crimini di guerra. Inoltre, rimane irrisolto il dossier dell’integrazione con il nord-est del Paese, dopo l’accordo quadro firmato da Sharaa e Mazloum Abdi lo scorso dicembre”.
Allargando l’ottica al piano internazionale, l’apertura di Damasco all’Occidente, la sua inclusione nella coalizione anti-Is e la sua potenziale partecipazione agli accordi di Abramo – con tutte le complessità dell’impegno di Israele – segnano un importante cambiamento simbolico e strategico. Secondo te, quale ruolo può svolgere la Siria in un quadro di sicurezza guidato dagli Stati Uniti (anche se “leading from behind”)?
Carenzi aggiunge: “Secondo quanto dichiarato da Damasco recentemente, e anche secondo quanto ho potuto osservare durante i miei soggiorni in Siria, l’idea non sarebbe quella di unirsi agli Accordi di Abramo, ma più che altro di negoziare un security agreement di portata più limitata, con l’aspettativa che Israele si ritiri dai territori occupati dopo l’8 dicembre 2024”.
Sin da dicembre 2024, il governo siriano ha adottato una politica che potremmo definire di “zero problemi”, osserva l’esperta. “In realtà, non si tratta di una novità assoluta per chi seguiva le dinamiche siriane all’interno dell’ex opposizione: già negli anni precedenti, figure di rilievo di Hayat Tahrir al-Sham avevano evidenziato principi quali quello di ‘neutralizzare’, nel senso di non inimicarsi, i potenziali avversari e di costruire ‘relazioni bilanciate’ con gli attori esterni interessati”.
In sostanza, l’idea di mantenere rapporti equilibrati con interlocutori diversi sulla scena internazionale, “evitando conflitti non necessari, sembra essere un caposaldo della politica estera dell’attuale governo”.
In termini di ordine regionale, la Siria guidata da al-Sharaa si presenta come un Paese ben inserito nelle reti di partnership con i Paesi regionali — dalla vicina Giordania agli Stati del Golfo — condividendo con questi numerosi punti di interesse, in primis la de-confliction e la stabilità regionale. “Paradossalmente, proprio la storia di Hts, un gruppo armato le cui radici affondano nel milieu jihadista, potrebbe offrire a Washington un’occasione per ripensare il paradigma della ‘War on Terror’, in un momento in cui si discute sempre più apertamente dei limiti e degli effetti controproducenti dei paradigmi tradizionali”.
Per Carenzi, gli ultimi anni “mostrano che i contatti e le istanze di dialogo con attori aventi radici nel milieu jihadista non sono più un tabù nella prassi contemporanea.”
















