Giorgio Usai, dirigente di Confindustria, è stato un modello di sindacalista d’impresa capace di unire etica, competenza e visione collettiva. Il suo mestiere, fondato su preparazione giuridica ed economica, richiede di comporre interessi diversi tra imprese e istituzioni, cercando il bene comune. La sua lezione resta attuale per una rappresentanza fondata su responsabilità e sintesi, non sulla mediazione. Il ritratto di Nicotri
Nell’agenda pubblica è tornato, in primo piano, il tema della rappresentanza. A fine settembre, il Parlamento ha approvato il disegno di legge delega in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva, nonché di procedure di controllo e informazione.
Non si intende formulare alcuna previsione circa l’orientamento o la direzione di marcia dell’azione di governo dei prossimi mesi, piuttosto condividere una “lezione” (P. Florenskij), di cui si è stati uditori attenti, che è di straordinaria attualità per ciò che insegna sul mestiere di sindacalista d’impresa, attraverso “l’evidenza” e a partire da “un metodo di lavoro”.
È molto più di “qualche valutazione per esperienza” quanto ricevuto in dono, ormai più di 13 anni fa (marzo 2012), da Giorgio Usai, già direttore Area Relazioni Industriali, Sicurezza ed Affari Sociali di Confindustria, scomparso nel novembre 2015.
Si offre alla lettura un estratto della trascrizione autorizzata (evidentemente, da contestualizzare nel tempo e nello spazio) di una conversazione avuta con lui sui contenuti della mia tesi di laurea, dal titolo “Confindustria: storia e cronaca di cent’anni di strategie sindacali e attività di lobbying”, in cui è pubblicato il testo integrale.
Il dialogo prese le mosse dalla considerazione che “svolgere il mestiere di “sindacalista d’impresa” all’interno di un’organizzazione di rappresentanza presuppone una scelta (…) cioè la consapevole e convinta condivisione dei principi di libertà d’impresa e di economia di mercato, sempre sorretta da solidi pilastri etici”.
È tale scelta a differenziare il sindacalista d’impresa da un libero professionista, “che parimenti può rendere molti dei servizi che l’impresa richiede, senza tuttavia avere la necessità di esprimere un esplicito coinvolgimento di partecipazione agli obiettivi della singola impresa e, tanto meno, del sistema delle imprese nel suo complesso”.
Dunque, scegliere di fare il sindacalista d’impresa, nell’ambito di strutture di rappresentanza associativa, “non può essere una scelta professionale di ripiego”. Richiede, infatti, «l’assunzione di una precisa filosofia di vita e dei suoi naturali corollari comportamentali».
Chiariva poi che tale mestiere “impone logiche diverse in funzione della sede in cui lo si svolge”.
Così, il responsabile delle risorse umane di un’azienda “ha l’obiettivo di realizzare il progetto che la “sua” azienda gli ha dato e concentra tutti i suoi sforzi e le sue scelte per il raggiungimento di quell’obiettivo”.
Mentre, per il sindacalista d’impresa che opera in un’associazione “il raggiungimento di un obiettivo posto da una singola impresa deve sempre trovare un equilibrato componimento con le diverse esigenze di tutte le altre imprese associate”.
In quest’attività di componimento, e non di mediazione, dei diversi interessi si innesta, per Usai, un’ulteriore difficoltà: “Considerare la platea associativa di riferimento”.
Del resto, “se si opera in un’associazione territoriale, il riferimento sono le imprese attive in quel dato territorio con appartenenza a diversi settori produttivi”.
Si tratta quindi di “una visione attenta al “sociale” nel territorio dove gli stakeholder sono in grado di dare immediata reazione diretta ad ogni scelta che incida sul vissuto locale”.
Con differenti caratteristiche aggiuntive è l’attenzione che deve porre, invece, “chi opera in una associazione nazionale di categoria dove, alla pur apparente omogeneità di interessi di imprese riconducibili alla stessa categoria, si aggiunge la disomogeneità dei problemi che le singole imprese devono affrontare non tanto in ragione delle loro dimensioni quanto, soprattutto, in funzione dei mercati in cui sono impegnate. Se infine si prende in considerazione il livello confederale, al sindacalista d’impresa è richiesto un impegno maggiore e diverso per individuare il giusto punto di equilibrio nelle scelte che dovrà fare in materia di lavoro”.
Già 13 anni fa metteva in evidenza come il mestiere di sindacalista d’impresa si fosse complicato per via della necessità di ““interpretare” contemporaneamente gli interessi di settori capital intensive e di quelli labour intensive; di imprese piccole e grandi; di imprese che operano su tutto il territorio nazionale e imprese che operano solo localmente; di imprese che competono sui mercati internazionali ed altre che competono solo nel mercato interno; di imprese toccate dalle liberalizzazioni e privatizzazioni ed imprese con ancora forte tendenza monopolista”.
Di fronte a situazioni similari, “il sindacalista d’impresa non può cercare la mediazione. Nella sua responsabilità di sviluppare sul piano tecnico gli input politici che gli provengono dal vertice dell’associazione, il suo obiettivo deve essere la ricerca dell’interesse generale, la sintesi”.
Cioè, dovrebbe “essere capace non già di mediare interessi, spesso corporativi, ma essere in grado di comporre interessi concorrenti verso interessi generali”.
Ciò a maggior ragione a livello confederale dove “l’impegno in materia di lavoro si sviluppa prevalentemente su due fronti: da una parte nel rapporto con le istituzioni, sia nella fase di costruzione ed elaborazione delle normative di legge in materia di lavoro (e quindi nel rapporto con il Governo ed il Parlamento), sia nella fase di gestione ed applicazione di specifiche discipline (e quindi nel rapporto con il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ma anche con gli istituti previdenziali ed assistenziali). L’altro versante è, naturalmente, con le confederazioni sindacali per tutte le materie che possono essere oggetto di confronto a livello interconfederale, sia nella situazione di negoziazione bilaterale che di incontri trilaterali e quindi fra Governo e cosiddette parti sociali”.
Ad ogni modo, il sindacalista d’impresa è chiamato a “elaborare le soluzioni come il risultato di un orientamento che si consolida attraverso il confronto che si dipana negli organismi tecnici ed è a sua volta il frutto di valutazioni già elaborate in sede territoriale e di categoria”. In altri termini, “elaborare un’azione costruttiva, di proposta e di anticipazione”.
Evidentemente anche sulla base della sua lunga e qualificata esperienza lavorativa maturata, sottolineava che, a maggior ragione se all’interno di una organizzazione di rappresentanza, per svolgere questo mestiere occorrano: “Un’adeguata preparazione giuridica di base, in particolare in materia di diritto civile, di diritto del lavoro e di diritto processuale; una robusta preparazione economica tale da essere sempre nelle condizioni di avere l’esatta comprensione delle conseguenze economiche delle soluzioni che, nelle diverse situazioni, vengono messe in discussione”.
Terminava questa testimonianza rimarcando che quello di “sindacalista d’impresa” non è un “mestiere che (…) si improvvisa anche perché porta con sé la responsabilità di fornire agli associati risposte che, nell’incidere sui dati economici dell’impresa, coinvolgono il fattore lavoro che deve sempre rimanere al centro dell’attenzione di chi intende operare nelle relazioni industriali”.
Aggiungeva concludendo che “per raggiungere il bene collettivo dell’associazione occorre rispondere, in ogni occasione, al dettato di un codice etico e ai principi della responsabilità sociale d’impresa”.
Questo omaggio personale alla memoria di Giorgio Usai, professionista e protagonista del nostro sistema di rappresentanza, conferma quanto ha scritto, di recente, Giuseppe De Rita, sulla “piazza”, sugli esiti delle manifestazioni di piazza, ovvero che si possono “gestire insieme interessi ed emozioni: basta non essere affascinati dalla rappresentazione e dalla sua spettacolarità”.
















