Il resistente ucraino chiede armi e denaro ma l’Europa tentenna. Trump concede a Orban un anno di esenzione dalle sanzioni americane sull’importazione di petrolio e di gas dalla Russia. Adesso è ora che il Vecchio continente decida con determinazione cosa fare. L’opinione di Maurizio Guandalini
Siamo rimasti alla richiesta, senza risposta, fatta da Zelensky all’Europa, qualche settimana fa. Ci servono armi e denaro per altri due o tre anni, ha detto il presidente ucraino. Silenzio da Casa Bruxelles. È di queste ore il rifiuto della Germania di inviare i missili a lunga gittata Taurus. Che si associa al niet di Trump di mandare i Tomahawk per colpire il territorio russo.
È legittimo farsi un po’ di domande. Che prendono spunto dalle perplessità espresse dal vice presidente del Consiglio Salvini, “non si può finanziare l’Ucraina per i prossimi cinquant’anni”, in risposta alla provocazione (disperata e, dall’Italia, sopravvalutata) della Zakharova, responsabile della comunicazione del ministero degli Esteri russo “con i soldi a Kyiv, l’Italia cadrà a pezzi”. All’uscita istituzionale ‘fino a quando inviare armi e denari?’, aggiungerei un esigente ‘per raggiungere quale obiettivo, vincere la guerra?’.
Non sono domande peregrine o ciniche ma, al contrario, servono a fare chiarezza di ruolo e di ruoli. Verso l’opinione pubblica che sta osservando un’estenuante confusione di atti e posizioni stop and go che nascondono sicuramente qualcosa. Un realismo pragmatico che va esternato al più presto per evitare altre distruzioni e morti.
Zelensky vuole vincere la guerra colpendo la Russia. L’Europa e gli Stati Uniti non sono dell’avviso di entrare in guerra con Putin. Il Presidente ucraino continua ad appoggiarsi all’Europa, la ‘usa’ come può per colmare i suoi obiettivi. Il Vecchio continente l’ha accolto, coccolato facendogli promesse impossibili (entrare, in varie forme, nella Nato è una di queste), riservandosi di assecondare le mete che da Kyiv sono via via cambiate. Non c’è mai stato un fronte strategicamente compatto, deciso, dell’Europa. Dal tira e molla sull’invio delle armi all’uso di beni e proprietà russe congelate nei stati dell’Unione. Fino alle sanzioni sul petrolio e sul gas russo addirittura condonate per un anno a Orban dal presidente Trump. Tralascio l’ingresso in Europa e nell’Alleanza Atlantica perché non ci ha mai creduto nessuno, tanto meno i leader che l’hanno dichiarato, i quali si sono serviti per fare una bella figura. Compassionevole, però.
L’Europa è stata trascinata, ci è caduta dentro in questo conflitto più grande di lei, aggrappandosi, caricandolo oltre misura, legando addirittura le proprie sorti future in economia e difesa, assurgendo a esempio di libertà e democrazia da esportare. Evidentemente non è andata com’era stato previsto.
Sono cambiati gli scenari geopolitici, le economie, crisi in Germania, in Francia e in Italia, ripercussioni sui cittadini, sulle famiglie, sulle imprese, ancora oggi, con i costi dell’energia fuori controllo (le imprese italiane sono oltre i limiti possibili), proprio nel momento che all’Europa si chiede un riscatto, un risveglio, un darsi da fare per rimettersi alla pari con i grandi del mondo. La risposta è stata economia di guerra. Il pericolo russo, la sicurezza precaria dei confini, l’urgenza di un rapido riarmo degli eserciti nazionali, i bilanci carichi d’investimenti in risorse militari a scapito del welfare. Ma è possibile, ad esempio, immaginare una remise en forme dell’economia tedesca con investimenti fuori regola nella difesa? E, infatti, gli ultimi dati teutonici sono drammatici, 10 mila disoccupati in più al mese, crollo della produzione, export che arranca, i fallimenti di medie e grandi imprese che aumenteranno del 25% nel 2025.
Qualcosa nelle ricette del cancelliere Merz non funziona. Lo stesso semitono è diffuso nelle altre nazioni, dalla Gran Bretagna alla Francia, promotori del gruppo dei volenterosi, in sostanza quelli che si sarebbero più dati da fare nel sostegno a Zelensky. Una lungimiranza che si è dissolta tanto rapidamente che nemmeno ci siamo accorti. Ideata più come passerella che determinata a un impegno diretto, visibile e risolutorio del conflitto. Kyiv si è spesso lamentata, chiedendo maggiore zelo. Ma anche qui, per fare cosa? E poi cos’è questa confusione di protagonismi nel bailamme che già c’è, ma la Nato che ci sta a fare, cos’è un accessorio, un di più? I volenterosi sono forse un embrione di quel federalismo pragmatico evocato da Draghi? Sembrano tanto delle scorciatoie andate a male, dispendio di denari ed energie a dispetto di istituzioni e alleanze che già ci sono e le quali dovrebbero essere chiamate a fare, loro, un lavoro di realismo, informando l’opinione pubblica per come stanno effettivamente i fatti.
Come stanno le cose sul campo di battaglia? Titoli di giornali di qualche giorno fa: “Ucraina: a Pokrovsk i russi ci sovrastano in numero e ci attaccano con armi pesanti”; “Mosca: Kupyansk cadrà in 7 giorni”. Abbonda la propaganda, si fatica a trovare una fonte certa che dica a che punto sta il conflitto russo-ucraino. I risvolti futuri, le perdite, l’avanzare degli eserciti, le terre conquistate. Da qui occorre iniziare per rispondere alla domanda iniziale, fino a quando inviare armi e denari.
Lo chiedono i cittadini che hanno affrontato abbondanti sacrifici per quella guerra, senza vedere risultati, la pace o la vittoria dell’Ucraina. È il punto di svolta. Per l’Europa e l’Italia. Costatare, forse, che Kyiv ha perso la guerra? Che continuare non ha senso? Che occorre il coraggio di mostrare la bandiera bianca (parole di Papa Bergoglio del marzo 2024)? Rebus sic stantibus ci vuole più forza d’animo che l’Europa si assuma l’onere di dire a Zelensky la verità.
Compito non facile. Immane. Perché distrugge un castello fragile, costruito in troppa fretta. Certo proseguire nel conflitto, inviando armi e denari a babbo morto senza obiettivi certi (l’alternativa è fare e cercare di vincere la guerra contro la Russia) sarebbe deleterio.
















