L’inattesa telefonata tra Trump e Xi Jinping avviene mentre Cina e Giappone sono ai minimi delle relazioni per una vicenda legata a Taipei. Per Pechino, la telefonata è un messaggio aperto: l’ordine del dopoguerra include Taiwan come “parte della Cina”. Per Washington, almeno nella comunicazione pubblica, pare più un episodio incardinato nella diplomazia economica
La telefonata tra Donald Trump e Xi Jinping, avvenuta lunedì su iniziativa del leader cinese, arriva nel momento più delicato della crisi fra Pechino e Tokyo sulla sicurezza dello Stretto di Taiwan. L’intervento diretto di Xi — e la scelta di far circolare per prima la versione cinese della conversazione — segnala che per Pechino era cruciale orientare la narrativa, soprattutto mentre la disputa con il Giappone si intreccia con i negoziati commerciali con Washington e con i preparativi della possibile visita di Trump a Pechino in aprile.
Come Pechino ha raccontato la telefonata
Nel comunicato ufficiale, Xi insiste su tre concetti: la natura “positiva e stabile” dei rapporti sino-americani dopo l’incontro di Busan; l’idea che cooperazione e non confronto sia l’unica via per la prosperità reciproca; e soprattutto la questione di Taiwan, descritta come “parte integrante dell’ordine internazionale del dopoguerra”. Xi richiama il fatto che Cina e Stati Uniti “combatterono fianco a fianco contro fascismo e militarismo”, un riferimento diretto al Giappone nel momento in cui Pechino alza la pressione su Tokyo.
Il messaggio è calibrato: evocare una memoria storica condivisa con Washington mentre si segnala che Pechino considera le posizioni giapponesi una violazione dell’“ordine post-bellico”.
Come Washington ha raccontato la telefonata
La versione di Trump omette completamente Taiwan e qualsiasi riferimento all’ordine del dopoguerra. Nel suo post su Truth Social il presidente americano elenca temi economici — Russia/Ucraina, fentanyl, soia e altri prodotti agricoli — e rivendica “un rapporto estremamente forte” con la Cina. Parla di “progresso significativo” nell’attuazione degli impegni presi a Busan e annuncia due visite: una sua a Pechino in aprile, una di Xi a Washington più avanti nel 2026.
La divergenza narrativa è evidente: la Cina enfatizza Taiwan, gli Stati Uniti evitano anche solo di nominarla.
Il ruolo del contesto: la crisi sino-giapponese
Secondo Bill Bishop, l’iniziativa di Xi suggerisce una volontà di “modellare la reazione di Trump” alla crescente crisi fra Cina e Giappone. Trump e la Casa Bianca, finora, non si sono espressi sugli attacchi verbali cinesi contro Tokyo dopo le dichiarazioni della premier Takaichi.
L’analisi di Neil Thomas (Asia Society) aggiunge un elemento strutturale: Pechino non vuole che lo scontro con il Giappone interferisca né con la tregua commerciale con Washington — che potrebbe essere firmata “entro il Thanksgiving”, ossia giovedì, stando ai background statunitensi — né con la preparazione della visita di Trump (in Cina ad aprile prossimo). Per questo, la Cina probabilmente manterrà “gli attuali livelli di coercizione economica finché non potrà rivendicare una qualche concessione da Tokyo”. Ma Thomas non vede una soluzione rapida: “Non penso che i divieti saranno risolti nel prossimo futuro”.
La tregua commerciale, nota Thomas, ha rafforzato la convinzione del Partito comunista di “gestire bene Washington”, perché la priorità di Trump di chiudere un accordo offre alla Cina “maggior margine per mettere pressione su alleati e partner” riducendo la probabilità che gli Stati Uniti intervengano prontamente in loro difesa.
Segnali di allarme, non di sicurezza
Craig Singleton della FDD legge l’iniziativa di Xi come un sintomo di allarme, non di sicurezza. Il presidente cinese vede emergere una coalizione regionale — in particolare Giappone e altri attori che trattano Taiwan come un interesse di sicurezza condiviso — che Pechino ha cercato a lungo di prevenire. La telefonata avrebbe quindi lo scopo di rallentare l’allineamento in atto e influenzare la postura di Trump.
Ma in questo quadro, un passaggio sottolineato da Bishop è particolarmente sensibile: secondo l’agenzia stampa cinese Xinhua, Trump avrebbe detto a Xi che gli Stati Uniti “comprendono l’importanza della questione di Taiwan per la Cina”. Si tratta di un linguaggio che si avvicina più alla narrativa di Pechino che a quella dei principali alleati regionali di Washington.
Tokyo, già sotto forte pressione economica e diplomatica dalla Cina, può solo leggere la telefonata come un segnale ambiguo: mentre Xi lega Taiwan al risultato della Seconda guerra mondiale, Trump enfatizza i dossier agricoli e commerciali, lasciando in secondo piano la dimensione strategica che per il Giappone è centrale.
Anche a questo, si potrebbe legare la mossa di Tokyo per rafforzare il canale diretto con Washington. Poche ore dopo la chiacchierata con Trump-Xi, la premier giapponese, Sanae Takaichi, ha avuto una telefonata con il leader americano, durante la quale ha espresso gratitudine per il messaggio autografo ricevuto in occasione della sua recente visita in Giappone e ha ringraziato gli Stati Uniti per gli sforzi a favore della pace in Ucraina. I due leader hanno discusso del rafforzamento dell’alleanza nippo-americana e delle sfide nell’Indo-Pacifico, mentre Trump ha fornito un aggiornamento sulla sua ultima interazione con Xi Jinping e sullo stato delle relazioni Usa-Cina.
Su richiesta di Trump, Takaichi ha illustrato gli esiti del recente summit del G20 (a cui l’americano non ha partecipato). La conversazione si è conclusa con la conferma della cooperazione bilaterale “alla luce della situazione internazionale attuale” e con Trump che ha ribadito alla premier di essere disponibile a ricevere le sue chiamate “in qualsiasi momento”, sottolineando il rapporto personale tra i due.
Pechino porta la crisi alle Nazioni Unite
Intanto, prima della call, la Cina aveva scelto di trasferire la disputa con il Giappone sul piano multilaterale, portando il caso direttamente alle Nazioni Unite. In una lettera indirizzata al segretario generale António Guterres, l’ambasciatore cinese Fu Cong ha accusato la premier giapponese, di aver minacciato “un intervento armato” nello Stretto di Taiwan, definendo le sue parole “una grave violazione del diritto internazionale” e delle norme diplomatiche. Secondo Pechino, l’affermazione di Takaichi — secondo cui un ipotetico attacco cinese a Taiwan potrebbe configurare una “situazione minacciosa per la sopravvivenza del Giappone” — rappresenterebbe un superamento della linea rossa, tale da consentire a Tokyo di dispiegare le proprie forze armate.
La reazione cinese, tra le più dure degli ultimi anni, si inserisce nella più ampia strategia di Pechino di ricorrere al linguaggio dell’autodifesa e della “sovranità territoriale”, avvertendo che qualora il Giappone “osasse tentare un intervento armato”, ciò costituirebbe “un atto di aggressione” al quale la Cina risponderebbe esercitando il proprio “diritto all’autodifesa” ai sensi della Carta Onu. Tokyo ha definito queste accuse “del tutto inaccettabili”, ribadendo la propria posizione pacifista e accusando Pechino di distorcere le dichiarazioni della premier.
La scelta cinese di alzare lo scontro a livello onusiano è significativa: arriva alla vigilia dell’80º anniversario della fine della Seconda guerra mondiale e sfrutta una narrativa storica consolidata, che collega le pretese territoriali su Taiwan alle dichiarazioni del dopoguerra — come quelle del Cairo e di Potsdam — presentate da Pechino come basi legali della propria sovranità. Il richiamo al passato non è casuale: Pechino cerca di delegittimare la nuova postura giapponese, accusando Tokyo di voler superare i vincoli della propria costituzione pacifista, mentre rafforza la propria posizione internazionale presentando Taiwan come un elemento della governance postbellica e non come una questione regionale. È un modo per spostare la disputa su un terreno giuridico e multilaterale, ampliando la pressione diplomatica sul Giappone proprio mentre la crisi investe commercio, cultura e sicurezza.
Cosa indica la telefonata
Da qui, l’importanza della telefonata, del contesto temporale e delle (classiche) differenze nelle versioni. L’iniziativa proveniente da Pechino, e il contesto della crisi con il Giappone suggeriscono tre interpretazioni.
Primo, Pechino sta testando i limiti della nuova amministrazione Trump, puntando a capire quanto spazio ha nelle questioni solo apparentemente regionali — dal valore esistenziale, come il destino di Taiwan — mentre procede verso la chiusura dell’accordo commerciale. È poi possibile che la Cina voglia prevenire un coordinamento più stretto fra Giappone, Stati Uniti e altri partner su Taiwan, sfruttando la fase negoziale con Washington e stressando il dossier per creare complicazioni agli Usa. Infine, terza dimensione, Trump, concentrato sugli aspetti economici, appare disposto a separare trade e sicurezza, con messaggi che i partner asiatici leggono come un potenziale indebolimento del deterrente americano.
















