Il viaggio asiatico di Trump, dalla Malesia al Giappone fino alla Corea del Sud, segna il ritorno di Washington come attore centrale nell’Indo-Pacifico. Tra accordi commerciali, diplomazia muscolare e l’atteso incontro con Xi, il presidente punta a ridefinire gli equilibri economici e strategici globali
Lo scalo tecnico a Doha ha permesso al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di arricchire il suo viaggio asiatico di un incontro. Nelle scorse ore, mentre l’Air Force One si stava rifornendo, è infatti salito a bordo Tamim bin Ḥamad Al Thani, l’emiro del Qatar, un Paese che sta ottenendo risultati eccellenti nel consolidare la propria relazione con Washington. Risultati frutto anche dell’aver compreso come trattare (almeno in questo momento) l’approccio transazionale con cui Trump si muove nel mondo. Doha, con diretto ritorno di interessi, è in prima linea nei grandi dossier geopolitici della regione (cruciale il suo ruolo per il dialogo con Hamas) e internazionali; investe nel mondo trumpiano negli Usa e poi tra i grandi player mediorientali è quello che gestisce i rapporti con la Cina con maggiore discrezione. Un elemento di valore: nell’ottica americana, i rapporti con Pechino devono essere diluiti e non interferire con gli interessi degli Usa stessi. Per esempio, a Washington nelle stesse ore che al Thani incontrava Trump, c’è da gestire una grana legata proprio alle relazioni cinesi dei partner mediorientali: secondo la Cia, gli Emirati Arabi Uniti avrebbero passato tecnologia occidentale alla Cina — probabilmente tramite G42 (il super fondo emiratino per l’AI) rivela il Financial Times, precisando che non è chiaro quanto ad Abu Dhabi fossero consapevoli del trasferimento stesso. Il passaggio di chip e altra componentistica ha permesso alla Cina di migliorare dal 20 al 30% l’efficacia dei missili aria-aria PL-15 e PL-17.
“L’intelligence ha avviato un acceso dibattito nell’amministrazione sulle relazioni degli Stati Uniti con gli Emirati Arabi Uniti e se si dovrebbe cooperare di più con lo Stato del Golfo sull’AI a condizione che accettasse di smettere di lavorare con la Cina”, spiega l’autore dello scoop, Dimitri Sevastopoulo. Permettere alla Cina vantaggi militari ampi è una linea rossa per Trump e per qualunque leader statunitense: è ammessa la possibilità di lavorare con Pechino, ma con discrezione, controllo, consapevolezza e sicurezza (e su questo anche Roma sembra aver preso la strada giusta negli ultimi anni). Trump stesso vuole avere rapporti sani, magari trovando un grande accordo. Lo spiegherà durante il faccia a faccia che nei prossimi giorni avrà a Busan con il leader cinese, Xi Jinping — che arriva in Corea del Sud per il vertice della Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) rafforzato dal controllo centralizzato e personalistico sul potere, confermato in questa settimana che il Partito/Stato ha dedicato al Quarto Plenum.
La tappa con al Thani, e tutto ciò che significa, arricchiscono dunque un’agenda già fitta, dove è vero che l’incontro con Xi è in cima alla lista delle priorità, ma ci sono anche altri momenti importanti — e significativi. Il viaggio asiatico del presidente degli Stati Uniti è cominciato ufficialmente in Malesia oggi, dove Trump partecipa al summit dei leader dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (Asean). È la sua prima missione nella regione da quando è tornato alla Casa Bianca, e rappresenta un test cruciale per il suo approccio economico e geopolitico nell’Indo-Pacifico, ancora regione cruciale per il futuro del mondo. Nella capitale Kuala Lumpur, Trump ha presieduto la firma dell’accordo di cessate il fuoco tra Thailandia e Cambogia, sottoscritto dai premier Anutin Charnvirakul e Hun Manet, alla presenza del premier malese Anwar Ibrahim. Un gesto che segna il ritorno di Washington come mediatore attivo nel Sud-Est asiatico, in una fase di crescenti tensioni territoriali e commerciali, e che arricchisce il menù di successi diplomatici che l’americano può rivendicare in nome dell’agognato Premio Nobel per la Pace.
Tra gli incontri in programma nei prossimi giorni, potrebbe esserci anche quello con il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, intenzionato a negoziare una riduzione del 40% dei dazi sulle esportazioni brasiliane e sfruttare l’occasione della sua presenza al vertice dell’Asean (la prima volta per un leader sudamericano) per vedere Trump. L’americano ha aperto alla possibilità “a determinate condizioni”, ma il dialogo si annuncia complesso: Lula vuole anche discutere le operazioni militari statunitensi al largo delle coste sudamericane, criticate come “interferenze mascherate”. L’incontro, previsto per domenica, non è ancora stato confermato ufficialmente dalla Casa Bianca.
Dalla Malesia, il presidente volerà a Tokyo, dove incontrerà la neoeletta prima ministra Sanae Takaichi, la prima donna a guidare il Giappone. Sul tavolo ci sono investimenti per circa 900 miliardi di dollari in progetti statunitensi in cambio di una riduzione dei dazi dal 25 al 15%. Ma la Casa Bianca osserva con cautela: solo una piccola parte, circa il 2%, si tradurrebbe in investimenti diretti, mentre il resto consisterebbe in prestiti e garanzie. Durante la visita, Trump sarà ricevuto dall’imperatore Naruhito e visiterà le truppe americane di stanza nell’Arcipelago, in un gesto simbolico di rafforzamento dell’alleanza indo-pacifica.
Infine la Corea del Sud, dove l’appuntamento ufficiale è la partecipazione al vertice della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (Apec), che si terrà a Gyeongju. Sul piano bilaterale, tra Washington e Seul resta aperto il negoziato commerciale: a luglio, Trump aveva accettato di ridurre i dazi al 15% in cambio di investimenti sudcoreani per 350 miliardi di dollari, ma l’arresto e l’espulsione di centinaia di operai sudcoreani impegnati nella costruzione di una fabbrica Hyundai negli Stati Uniti ha inasprito i toni.
La tappa sudcoreana del tour asiatico culminerà, come detto, con l’incontro di Busan con Xi, che fa da apice al quadro generale: il tentativo di ridefinire gli equilibri economici tra Stati Uniti e Asia dopo mesi di guerra commerciale. Il quadro economico in cui si muove Trump resta complesso. Nelle ultime settimane, Pechino ha imposto nuovi controlli sulle esportazioni di terre rare — materiali cruciali per l’industria tecnologica e della difesa — provocando un contraccolpo globale (anche l’Europa si sta attrezzando). Washington ha risposto minacciando dazi aggiuntivi, aggravando il clima di competizione commerciale strategica.
Ma l’agenda di Trump resta fluida, e non si escludono sviluppi a sorpresa. Uno potrebbe arrivare dalla Corea del Nord. Da giorni si rincorrono voci su un possibile incontro con Kim Jong-un, forse nella zona demilitarizzata (DMZ), dove in questi giorni le visite civili sono state sospese. “Mi piacerebbe, lui sa che stiamo andando lì”, ha detto Trump ai giornalisti a bordo dell’Air Force One. Poi, con tono ironico: “È difficile raggiungere il leader nordcoreano. Hanno molte armi nucleari, ma non molti telefoni.” La battuta è stata interpretata come un implicito riconoscimento dello status nucleare di fatto di Pyongyang — un cambio di registro rispetto alla precedente linea della denuclearizzazione forzata, una linea personale che già nel primo mandato Trump stava cercando di far passare tra gli strateghi statunitensi come contropartita transattiva per ottenere da Kim più autocontrollo.
L’Asia che Trump visita è frammentata, competitiva e attraversata da nuovi equilibri. E il suo viaggio — tra accordi commerciali, aperture simboliche e diplomazia muscolare — conferma una costante: la centralità della leva economica come strumento primario della politica estera americana. Tutto il resto, dalle tregue regionali ai vertici multilaterali fino all’accettazione di condizioni forzate, resta funzionale a un obiettivo più ampio: negoziare da una posizione di forza in un mondo che non è solo diviso in blocchi contrapposti ma guidato da interessi economico-strategici.
















