Ankara emette mandati di arresto contro Netanyahu e 36 funzionari israeliani, trasformando la crisi diplomatica in un atto politico. La mossa riflette la crescente rivalità geopolitica tra Turchia e Israele e la ridefinizione degli equilibri regionali post-Gaza
La decisione della Turchia di emettere mandati di arresto contro Benjamin Netanyahu e altri 36 membri del suo governo alza a un nuovo livello la frizione nei già deteriorati rapporti tra Ankara e Tel Aviv. L’accusa – genocidio e crimini contro l’umanità – fa esplicito riferimento al bombardamento israeliano che nel marzo scorso aveva distrutto un ospedale costruito dalla Turchia nella Striscia di Gaza, ma il valore del provvedimento è essenzialmente politico. Come per i mandati emessi nel 2024 dalla Corte penale internazionale, si tratta di un atto simbolico, privo di effetti concreti a meno che Netanyahu o gli altri accusati non si rechino in territorio turco.
L’iniziativa di Ankara conferma però un salto di qualità nella strategia comunicativa e diplomatica del presidente Recep Tayyip Erdoğan: non solo la condanna morale di Israele, ma la volontà di porsi come guida del fronte islamico contro Tel Aviv, in un momento in cui la guerra a Gaza continua a radicalizzare la frattura tra mondo arabo-musulmano e Occidente. Dopo il richiamo dell’ambasciatore e la sospensione degli scambi commerciali nel 2024, la Turchia aveva già affiancato il Sudafrica nell’accusa di genocidio alla Corte internazionale di giustizia. Ora, il mandato di arresto interno consolida una postura apertamente conflittuale, che Erdoğan utilizza anche per rinsaldare il consenso interno e riaffermare la Turchia come potenza morale nel mondo islamico.
Cinque giorni prima dell’emissione dei mandati di arresto, Ankara aveva già alzato il livello dello scontro politico con Israele ospitando un vertice regionale sul cessate il fuoco a Gaza. Alla riunione, tenutasi a Istanbul, hanno partecipato i ministri degli Esteri di Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Pakistan e Indonesia. L’incontro aveva l’obiettivo di definire una posizione comune sulla proposta statunitense — il cosiddetto “Trump Plan” — che prevede una tregua monitorata da una forza internazionale di stabilizzazione sotto mandato Onu.
Al termine dei lavori, il ministro turco degli Esteri, Hakan Fidan, ha accusato Israele di violare ripetutamente la tregua mediata da Washington e di impedire l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia. Ha citato dati Onu che mostrano come solo un quarto dei convogli di aiuti previsti sia effettivamente entrato a Gaza e ha denunciato la ripresa dei bombardamenti israeliani dopo la disputa sul rilascio degli ostaggi, che in una sola giornata hanno causato oltre cento morti, di cui 46 bambini. Fidan ha invitato la comunità internazionale a “mantenere la pressione su Israele” e ha ribadito che Ankara non intende permettere che “il genocidio riprenda”.
La riunione di Istanbul, dunque, si inserisce in una strategia più ampia: la Turchia mira a presentarsi come centro diplomatico alternativo alle mediazioni occidentali, proponendosi come garante di una pace “a due fasi” — cessate il fuoco immediato e poi un percorso politico verso la soluzione dei due Stati. Ma la discussione sull’eventuale forza di stabilizzazione internazionale mostra quanto lo scenario resti fluido: il governo israeliano ha già escluso la presenza di truppe turche e rivendica il mantenimento del controllo di sicurezza su Gaza, segno che anche all’interno del Trump Plan la visione di Netanyahu resta in aperto contrasto con quella di Ankara.
Negli ultimi mesi, i rapporti tra Turchia e Israele hanno oltrepassato la soglia della crisi diplomatica per trasformarsi in una vera e propria competizione geopolitica. Ciò che inizialmente appariva come una frattura morale e umanitaria legata alla guerra di Gaza si è progressivamente ampliato fino a toccare gli equilibri strategici dell’intera regione. Ankara ha reagito con crescente durezza non solo ai bombardamenti sulla Striscia, ma anche all’espansione dell’impronta israeliana in aree considerate sensibili per la sicurezza turca: i raid su obiettivi iraniani, le operazioni in Siria – dove la Turchia sta cercando di consolidare un proprio ruolo post-Assad – e, soprattutto, l’attacco contro una delegazione di Hamas a Doha, avvenuto a settembre 2025, nel territorio di quello che è oggi il principale alleato di Ankara nel Golfo. Quest’ultimo episodio, per la diplomazia turca, ha rappresentato un punto di non ritorno: non più solo una questione morale, ma un affronto diretto alla propria sfera d’influenza.
Dietro la tensione si intravedono due logiche di escalation diverse ma intrecciate. Per Ankara, Gaza è innanzitutto un tema politico interno e un imperativo morale: Erdoğan, spinto dall’opinione pubblica, ha dovuto bilanciare la sua prudenza strategica con la necessità di mostrarsi come leader del mondo musulmano. In Siria e nel Golfo, invece, la sfida è di natura strutturale: Israele mira a impedire la formazione di un nuovo ordine mediorientale che veda la Turchia come potenza stabilizzatrice, mentre Ankara persegue una visione diametralmente opposta, centrata sulla ricostruzione di Stati solidi e sull’estensione della propria influenza economica e di sicurezza. Il confronto resta sotto soglia, ma la competizione strategica è ormai manifesta. Il progressivo disallineamento di entrambi rispetto agli Stati Uniti — Israele sempre più assertivo sulla propria agenda, la Turchia sempre più diffidente verso la protezione Nato — alimenta un clima di incertezza che si riflette sull’intero equilibrio regionale.
In questo contesto, il mandato di arresto emesso da Ankara contro Netanyahu assume un valore che va oltre il gesto simbolico. È la traduzione giuridica di una frattura politica e strategica ormai consolidata: un modo per Erdoğan di riaffermare la centralità morale e diplomatica della Turchia nel mondo islamico, ma anche di segnalare che i limiti tradizionali della deterrenza regionale sono saltati. L’atto giudiziario diventa così un’estensione del conflitto politico, un messaggio diretto a Washington e alle monarchie del Golfo sul fatto che Ankara intende giocare un ruolo autonomo nella ridefinizione dell’ordine post-Gaza — un ordine in cui la credibilità americana vacilla e Israele, sempre più isolato, appare disposto a sfidare ogni vincolo pur di mantenere l’iniziativa strategica.
















