Le rivoluzioni del 2011 hanno scosso le fondamenta delle repubbliche arabe: Tunisia, Egitto, Yemen, Iraq, Siria in modo particolare. Si tratta di tutti Paesi che dalla laicità della scelta anticoloniale del cosiddetto panarabismo, che invocava la nascita di uno Stato arabo libero dal colonialismo, sono tutte scivolate nel totalitarismo di generali golpisti, e poi di altri golpe. Forse la strada che ha aperto la via del potere ad Al Sharaa è stato proprio il no al 2011. Ironie della storia?
L’atterraggio di Ahmad al Sharaa, attuale presidente siriano, alla Casa Bianca, primo presidente siriano a mettervi piede, deve riportarci a tanti anni fa, quando un tunisino si diede fuoco innescando una rivoluzione regionale.
La cosa sorprendente è che il suo non era un grande nome, non era un leader, un Fidel Castro: siamo davanti a un povero venditore ambulante, Mohammad Bouazizi, che si è dato fuoco davanti alla municipalità della sua sconosciuta cittadina tunisina, Sidi Bouzid, perché stufo delle angherie della polizia locale che gli confiscava le sue misere mercanzie.
Un Jan Palach tunisino, un giovane nato nella seconda metà degli anni Ottanta senza poter concludere gli studi per l’esigenza di aiutare a casa portando qualche guadagno occasionale ha messo a soqquadro un’intera regione del mondo. È stato questo umile ragazzo, che nessuno conosceva, a innescare un processo rivoluzionario che, partito dalla Tunisia, è arrivato fino in Iraq. Non c’erano islamisti in piazza, il 2011, la sua rivoluzione, li escludeva quasi ovunque. Era nato un movimento disorganizzato, nonviolento, fluido, ma dall’agenda chiara: “Il vecchio ordine totalitario e tribale va sostituito con uno rispettoso dei nostri diritti, della nostra voglia di un futuro”.
Il fatto sorprendente è che Bouazizi ha superato le barriere linguistiche imposte dal colonialismo europeo. La Tunisia è nell’area francofona e i giovani che protestavano nel suo nome urlavano “Bel Ali dégagé, cioè Ben Ali (il dittatore del tempo) vattene”. Così settimane dopo, avendoli visti in televisione, i giovani yemeniti hanno preso a gridare “Ali Saleh (il loro dittatore del tempo) dégagé”, cioè “Ali Saleh vattene”. Ma in Yemen il colonialismo non era stato francese, loro probabilmente ignoravano il vocabolo “dégagé”, ma ne capivano perfettamente il senso, e lo usavano per scelta empatica con i giovani tunisini.
Le rivoluzioni del 2011 hanno scosso le fondamenta delle repubbliche arabe: Tunisia, Egitto, Yemen, Iraq, Siria in modo particolare. Si tratta di tutti Paesi che dalla laicità della scelta anticoloniale del cosiddetto panarabismo, che invocava la nascita di uno Stato arabo libero dal colonialismo, sono tutte scivolate nel totalitarismo di generali golpisti, e poi di altri golpe.
I loro rivali erano le monarchie del Golfo: mentre il blocco repubblicano era di fatto scivolato nell’area filo-sovietica, le monarchie, ancorate alla religione per opporsi a questi regimi in origine laici, erano nel blocco filo-americano. Ma quando la rivoluzione del 2011 è divampata hanno temuto il contagio democratico: è proprio verosimile che con diverse infiltrazioni di gruppi jihadisti da alcune di loro finanziati hanno sequestrato la rivoluzione, imponendo un’altra leadership e una direzione opposta alla lotta contro quei regimi, che molto spesso i regimi oggetto di contestazione hanno apprezzato, perché li aiutava a presentarsi come nemici del terrorismo islamista. Poi si sarebbero fatti i conti.
Il 2011, la “rivoluzione nonviolenta”, aveva due motori: le campagne impoverite e i giovani delle città esausti dalle continue vessazioni, dal clima plumbeo, dalla privazione di ogni spazio di libertà. Ma non hanno trovato sponde: il timore dei jihadisti, dei terroristi, di cui loro erano in realtà le principali vittime, lo ha impedito. I giovani del 2011 erano visti come una emanazione del terrorismo che in realtà li dispossessava della loro rivoluzione, li combatteva, a volte incarcerava, emarginava e sostituiva. A guardar bene i giovani contestatori sono stati scalzati in modo plateale con i loro movimenti in Egitto, in Yemen e in Siria.
Così arriviamo ad Ahmad al-Sharaa. Formatosi in Arabia Saudita, di orientamento salafita, presto aderisce ad al Qaida, l’organizzazione di Bin Laden, che proponeva di assalire il nemico maggiore, gli Stati Uniti: dopo un po’ di tempo passa con i rivali dell’Isis, che propone di assalire il nemico minore, i regimi locali, per creare uno Stato Islamico (che per molto musulmani non può esistere) che funga da trampolino di lancio globale.
Il mondo si stringe intorno al regime siriano di Bashar al-Assad, l’indifendibile carnefice, proprio per paura dell’Isis, il nemico perfetto, che Assad per molti ha assecondato. Ma quando la sua insostenibilità diviene evidente per l’enormità della sua repressione che ha spopolato la Siria, i jihadisti che hanno rotto sia con al-Qaida che con l’Isis sotto la guida di al-Sharaa, ottengono un disco verde: i russi li lasciano entrare nella Aleppo che controllano, i turchi che hanno grande influenza sul nord della Siria li armano, gli americani osservano.
E al-Sharaa conquista il potere, segnando l’inizio di un’epoca nuova. Lo segue un esercito di estremisti, jihadisti stranieri e siriani umiliati da una vita di orrori. Cacciati senza un motivo dalle loro case da Assad, hanno vissuto da anni in campi profughi. Al Sharaa deve tenere insieme queste forze difformi, a volte confliggenti, ma sa che potrà ricostruire la Siria distrutta da 15 anni di guerra feroce solo con il consenso di tutti i grandi.
È amico dei turchi, ma va a inchinarsi a Putin in cambio di sostegno a stabilizzare il Paese, tenendo a bada gli amici di Assad che Putin ben conosce, ma soprattutto si lega ai sauditi, i soli che hanno le risorse per avviare il processo di ricostruzione, con l’aiuto e il placet di Washington. Che è arrivato mesi fa. Ora il processo si compie, al-Sharaa entrerà nella coalizione anti terrorismo, anti Isis, offrirà agli Stati Uniti una base aerea a Damasco, procederà nel negoziato di pace con Israele, in cambio della fine delle sanzioni che impedivano la ricostruzione, la vita di milioni di siriani. Come si libererà dai jihadisti stranieri e dagli estremisti che ha con sé si vedrà, ma è molto probabile che lo farà.
Molti restano gli interrogativi sul futuro; le istituzioni, i partiti, la costituzione, il ruolo della religione. Tutto questo si vedrà. Il rapporto con i curdi, la ristrutturazione dell’esercito, la forma dello Stato, il confessionalismo interno, sono i problemi della Siria di al Sharaa, che si è dimostrato un pragmatico. Probabilmente però la strada che gli ha aperto la via del potere è stato il no al 2011, alla primavera, diffuso in tutto il mondo proprio per combattere lui e i suoi. Ironie della storia?
















