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In Libia l’omicidio della blogger riaccende la polveriera dell’ovest

Mentre in Tripolitania si riaccende la tensione, dopo l’omicidio della blogger di Zawiya, le tribù locali guardano a Bengasi da dove Saddam Haftar è partito per una visita in Turchia allo scopo di rafforzare le relazioni internazionali

La Tripolitania torna a tremare. A Zawiya, 50 chilometri a ovest di Tripoli, la tensione è alle stelle dopo l’uccisione di Khansaa al-Mujahid, nota influencer di moda e lifestyle, moglie del politico e miliziano Muadh al-Manfukh. La donna è stata colpita mortalmente al termine di un inseguimento armato tra i quartieri di Janzur e al-Sarraj, in circostanze definite “orribili” dalle fonti locali. Le immagini circolate sui social mostrano la scena dell’agguato: l’auto con il motore ancora acceso, il corpo riverso sull’asfalto, e la folla intorno in preda al panico.

Secondo testimonianze raccolte sul posto, Khansaa avrebbe cercato di fuggire scendendo dal veicolo, ma è stata raggiunta da numerosi colpi d’arma da fuoco. L’attacco, compiuto in pieno giorno, ha scatenato shock e indignazione nella capitale, incrinando l’immagine di normalità e stabilità che il governo di Tripoli tenta di proiettare verso l’esterno.

Milizie in allerta e ultimatum al governo

La notizia ha rapidamente infiammato Zawiya, dove diverse formazioni armate hanno accusato fazioni rivali – senza nominarle apertamente – di essere responsabili del delitto. Convogli pesantemente armati si sono mossi verso l’ingresso occidentale di Tripoli, in particolare nella zona del ponte al-Ghiran.

La “Prima Brigata di Supporto” di Zawiya, una delle più potenti formazioni delle regioni occidentali, ha rilasciato una serie di dichiarazioni durissime: il governo ha 72 ore per identificare e punire i responsabili, altrimenti la brigata “applicherà la legge con la forza” e avanzerà verso il quartiere di Souk al-Thalatha, accusato di ospitare le “milizie del saccheggio generale”. Allo stesso tempo, i vertici della formazione denunciano un tentativo – attribuito a Walid al-Lafi, figura chiave della sicurezza di Tripoli – di manipolare la narrazione per seminare divisioni interne a Zawiya e spostare i sospetti all’interno della città.

La moglie di Al-Manfoukh, che è stato anche membro del Comitato per il Dialogo Politico ed è una delle figure note nella città di Al-Zawiya, è stata uccisa nell’area di controllo del Dipartimento per la Sicurezza Generale, guidato da Abdullah Al-Tarabulsi, fratello del ministro dell’Interno Emad Al-Tarabulsi.

Il nodo dei responsabili e la crisi politica

In assenza di rivendicazioni ufficiali, le ipotesi investigative si moltiplicano. Alcuni media libici puntano il dito contro Mohammed Bahrun, detto “al-Far” (“il Topo”), comandante della stessa Prima Brigata e vice direttore dell’Apparato per la Lotta alle Minacce di Sicurezza. Al-Far, già implicato nel caso dell’uccisione del miliziano al-Bidja, sarebbe stato alla guida del gruppo di auto che ha inseguito la vittima dal suo quartiere di residenza fino alla zona dell’agguato. Altri analisti sottolineano però che il marito della donna, al-Manfukh, era ritenuto vicino allo stesso “al-Far”, lasciando aperti interrogativi sui veri mandanti e sul contesto dell’omicidio.

L’identità degli aggressori e il veicolo utilizzato nell’attacco rimangono sconosciuti finora, mentre il Ministero dell’Interno non ha rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale sull’incidente, se non quella nella quale ha ordinato di indagare sull’accaduto.

La Brigata di Zawiya, pur smentendo ogni coinvolgimento diretto, ha reagito con forza: ha condannato l’attacco attribuendo la responsabilità politica al premier Abdulhamid Dbeibah e al ministro dell’Interno al-Tarablsi, accusandoli di aver lasciato degenerare la sicurezza nella capitale. Di fronte all’onda di rabbia popolare e ai rischi di nuovi scontri, Dbeibah starebbe valutando un decreto per sospendere lo stesso al-Tarablsi, figura politicamente ingombrante e legata al “Dispositivo di Sicurezza Pubblica”.

Oltre la cronaca: il riflesso geopolitico

L’assassinio di Khansaa al-Mujahid arriva in un momento in cui Zawiya si riavvicina visibilmente all’est libico e al governo di Bengasi. Solo pochi giorni prima, il maresciallo Khalifa Haftar aveva ricevuto nella sua sede di Bengasi una delegazione di notabili della città, lodandone il ruolo strategico e invitandoli a “mettere l’interesse nazionale al di sopra di ogni altra considerazione”.

Intanto, il governo orientale di Osama Hammad ha approvato la creazione di un nuovo aeroporto commerciale a Zawiya, segnale concreto di un corteggiamento politico mirato a consolidare la posizione della città più instabile della Tripolitania. Questo passaggio politico-economico rafforza il sospetto che l’ovest del Paese possa progressivamente scivolare verso l’orbita di Bengasi, minacciando l’equilibrio sul quale si regge il governo di unità nazionale di Dbeibah.

Turchia, Bengasi e il paradosso dell’unità libica

Mentre l’ovest libico si infiamma, il figlio del feldmaresciallo, il generale Saddam Haftar, si trova in visita ufficiale ad Ankara, dove ha incontrato il capo di Stato maggiore turco Selçuk Bayraktaroğlu. Nelle stesse ore, il quotidiano turco Yenisafak, vicino al partito AKP, parla apertamente di una “nuova fase” nelle relazioni tra Ankara e Bengasi, auspicando un invito ufficiale a Haftar in Turchia. I segnali convergono verso un lento ma visibile processo di riavvicinamento tra la Turchia – storicamente alleata del governo di Tripoli – e l’est libico guidato da Haftar. Una dinamica che, se confermata, potrebbe ridisegnare gli equilibri nel Mediterraneo e rilanciare il tema della sovranità libica come progetto nazionale condiviso.

Una ferita simbolica

Per Ahmed Zaher, analista libico e osservatore della Tripolitania, l’omicidio di Khansaa al-Mujahid “colpisce al cuore l’immagine di una Tripoli ‘normale’ che il governo vuole vendere all’Europa”. In lei, spiega Zaher a Formiche.net, si rifletteva l’idea di una gioventù urbana e moderna, lontana dalle logiche tribali e militari. “Colpirla in pieno giorno non è solo un atto di violenza, ma un messaggio politico: nessuno è davvero al sicuro, nemmeno chi sta fuori dai giochi di potere”.

In questo senso, la vicenda travalica la cronaca nera e si trasforma in un potente indicatore del caos che ancora domina la sicurezza libica, dove il monopolio della forza è frammentato e la narrazione pubblica diventa un’arma del conflitto.

La morte di Khansaa al-Mujahid, oltre a spezzare una vita, ha dunque riacceso il cuore instabile della Tripolitania. Tra convogli armati, minacce di rappresaglia e nuovi riassetti geopolitici, la Libia mostra ancora una volta quanto fragile resti il suo equilibrio politico — e quanto profonda sia la crisi di legittimità delle sue istituzioni.


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