In America gli unicorni della Silicon Valley sfidano la lentezza e la farraginosità degli storici contractor del Pentagono, mentre in Europa è sempre più netta la divisione tra i Paesi che vedono nell’industria un prolungamento della propria sicurezza nazionale e quelli che agiscono ancora con un’agenda export-oriented. Le due tendenze, seppur diverse nel loro manifestarsi, sono conseguenze della medesima causa: la crisi del modello multilaterale
C’è un filo che negli ultimi anni sta attraversando l’industria della Difesa in Occidente, un filo che con il tempo si è trasformato in una crepa e che oggi assomiglia a una vera e propria faglia. Non è una frattura improvvisa né il risultato di un singolo evento. È l’esito di un sistema internazionale che ha smesso di offrire certezze, del ritorno della competizione strategica tra Potenze e di un mercato che non funziona più con le logiche degli anni Novanta. Negli Stati Uniti come in Europa, attori nuovi si muovono in spazi che un tempo erano appannaggio esclusivo dei colossi tradizionali. Cambiano le priorità, cambiano le aspettative, cambia perfino il modo in cui si concepisce un programma militare. E a ben guardare, le tensioni che percorrono Washington e quelle che scuotono le capitali europee non sono che due manifestazioni di uno stesso, identico processo.
La faglia americana: la sfida delle emerging tech al modello dei big prime
Negli Stati Uniti, la linea di frattura vede da un lato la sempre più influente costellazione delle emerging defense tech – le startup della Silicon Valley – e dall’altro i grandi contractor che per decenni hanno definito tempi e modalità del procurement militare del Paese. Le nuove aziende portano un’impostazione radicalmente diversa rispetto al passato. Investono risorse proprie nelle fasi preliminari, puntano forte sulle tecnologie innovative e disruptive, sviluppano capacità in autonomia e si presentano al Pentagono con prototipi quasi maturi, pronti per essere messi in produzione o già off-the-shelf. Il loro mantra è la rapidità. Ridurre le fasi di ricerca e sviluppo, comprimere i cicli produttivi e consegnare capacità operative nel giro di mesi, anziché di decenni. La promessa è semplice (e forse proprio per questo irresistibile): abbreviare il tragitto che separa l’idea dal campo di battaglia.
Il contrasto con il modello che ha plasmato programmi come l’F-35 – o, andando più indietro, come il Bradley, passato alla storia per una gestazione interminabile – non potrebbe essere più netto. I big prime, sin dai tempi della contrapposizione con l’Unione Sovietica, hanno lavorato all’interno di un ecosistema dove tempi dilatati, finanziamenti colossali e processi iper-burocratizzati erano percepiti come fisiologici. Ma quell’epoca sta finendo.
L’amministrazione Trump ha scelto esplicitamente di alimentare questa faglia. La riforma della disciplina degli appalti del Pentagono punta proprio a forzare un cambio di passo nei grandi conglomerati della difesa, incentivando chi dimostra rapidità e penalizzando chi fatica ad adattarsi. La nomina di figure provenienti dal mondo delle emerging tech come ufficiali di complemento nelle strutture di procurement del DoD è emblematico in questo senso: il sistema deve cambiare, e lo farà accelerando. In questo quadro, attori come Palantir, Anduril e ShieldAI (oltre a molti altri) non sono più eccezioni, ma il grimaldello con cui la Casa Bianca intende scardinare un modello considerato troppo lento per il nuovo ritmo strategico imposto dalla competizione globale, in particolare con la Cina.
La faglia europea: export-first contro security-first
Se negli Stati Uniti la divisione si gioca tra i modelli produttivi, in Europa la frattura attraversa direttamente le finalità strategiche dei programmi. Qui l’industria della difesa ha subito più di altre il lungo inverno seguito al 1991, con bilanci risicati, minacce percepite come remote, dipendenza crescente dai progetti congiunti e, soprattutto, una progressiva trasformazione dell’export in principale direttrice di business. Per molti Paesi, per molti programmi, l’obiettivo non era tanto dotarsi di capacità nazionali, quanto garantire che il prodotto finale potesse essere venduto in Medio Oriente, in Asia o in Africa. Questa impostazione ha influenzato non solo i criteri di design degli equipaggiamenti, spesso pensati per essere “buoni per tutte le stagioni e in tutti i teatri operativi”, ma anche il modo stesso in cui le aziende europee si avvicinavano alla progettazione.
Ora però, gli Stati europei si trovano a fare i conti con l’eventualità di un conflitto (o se non altro con una condizione di rivalità strategica di lungo corso) con la Russia. Eventualità che, come ricordano da Washington, non vedrebbe un appoggio americano comparabile a quello offerto fino al 1991. Di qui l’urgenza di rimettere mano ai tessuti industriali, per prepararli a far fronte alla rinnovata domanda domestica di equipaggiamenti e munizionamento.
Il caso più emblematico di questo scontro di visioni è la frattura tra Francia e Germania sul programma di sesta generazione Scaf/Fcas. Parigi punta su un velivolo esportabile, flessibile, pensato per replicare il successo commerciale del Rafale. Berlino, al contrario, ragiona sempre più in termini di esigenze strettamente europee e desidera un caccia pensato per il fianco Est, con capacità di pattugliamento a lungo raggio e caratteristiche modellate sul contesto continentale. All’origine dell’abbandono del programma non c’è stata dunque solo una questione di workshare tra Dassault e Airbus, ma una divergenza profonda sugli obiettivi strategici del programma.
A rendere ancora più evidente questa faglia contribuiscono le scelte di Paesi che, seppur con velocità diverse, stanno abbandonando l’approccio export-driven per tornare a concepire l’industria della Difesa come un’estensione diretta della propria sicurezza nazionale. Oltre alla Germania, è anche il caso della Polonia, che negli ultimi tre anni ha intrapreso un percorso di riarmo senza precedenti, orientando gli investimenti verso piattaforme immediatamente disponibili e nuovi impianti produttivi, più che verso singoli programmi ad alto valore commerciale.
Un percorso simile vale per i Paesi baltici. Estonia, Lettonia e Lituania non hanno un tessuto industriale comparabile a quello delle grandi economie europee, ma condividono la necessità di dover spingere l’Europa verso programmi capaci di generare disponibilità rapida, interoperabilità e soprattutto produzione scalabile in tempi brevi. In altre parole, piattaforme pensate principalmente per essere usate in casa, piuttosto che vendute all’estero.
L’Italia, pur muovendosi con maggiore gradualità, sta entrando anch’essa in questo paradigma. Roma ha un’industria complessa, radicata nei mercati esteri, ma negli ultimi due anni ha iniziato a insistere sulla necessità di ricostruire gli stock, di velocizzare ed espandere le linee produttive, nonché di orientare i programmi al soddisfacimento degli obiettivi indicati nei piani pluriennali della Difesa e in stretto coordinamento con le singole Forze armate.
Due faglie, un’origine comune
Benché le faglie dalle due sponde dell’Atlantico possano apparire diverse, entrambe condividono un fattore comune: il mutamento dello scenario strategico. Man mano che la logica di potenza torna ad affermarsi, stanno venendo meno i capisaldi strutturali che avevano riplasmato il mercato della Difesa dopo la fine del bipolarismo. Venuti meno i presupposti per una guerra con l’ex-patto di Varsavia, le industrie della Difesa occidentali hanno visto gli investimenti a esse destinate, in particolare da parte dei loro Stati di provenienza, contrarsi sensibilmente. La stagione della “War on Terror” e degli interventi all’estero aveva provocato un’involuzione negli affari militari, con organici sempre più ridotti e un focus crescente sullo sviluppo di pochi assetti tecnologicamente impareggiabili. Nel frattempo, mentre la domanda di equipaggiamenti calava in Occidente, nel resto del mondo nuovi attori emergenti guardavano a quei prodotti con crescente interesse. Di qui – oltre che per non chiudere definitivamente bottega – le industrie si sono spostate su un modello export-driven. In più, il netto vantaggio tecnologico occidentale, unito all’assenza di reali competitor, ha costituito un letto di allori su cui più di un attore si è adagiato. Dal febbraio 2022, questo sistema ha cessato di esistere. Con l’invasione dell’Ucraina, e il conseguente ritorno della competizione strategica tra potenze, l’Occidente si è scoperto meno preparato e molto meno equipaggiato di quanto pensava.
Ora, il mutato scenario strategico (che non esclude, purtroppo, l’eventualità di ulteriori conflitti inter-statuali) richiede un adeguamento sostanziale. Non basta aumentare le linee di produzione, serve ripensare l’intera architettura del procurement per renderla in grado di rispondere alle nuove esigenze di Stati e Forze armate. Il trend emergente – sia negli States sia nel Vecchio continente – appare il medesimo: rapidità e priorità alle esigenze domestiche contro programmi pluriennali principalmente importati all’export. È una transizione difficile, non c’è dubbio. Non solo sul piano materiale e degli investimenti, ma soprattutto per la mentalità. Non è un caso se, mentre le azioni di Palantir salgono, quelle di Lockheed scendono. Da un lato, attori che stanno intercettando i mutamenti strutturali nell’ordine internazionale (rapidità, competizione serrata e tecnologie disruptive) e vi si stanno adeguando; dall’altro, colossi forti di decenni di esperienza ma ancora avvinghiati a un modello industriale ormai passato che però vive nella speranza del ritorno al business as usual. Peccato che di tale ritorno non se ne veda alcuna traccia.
















