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L’11 febbraio del 2013, fu comunicata al mondo la rinuncia di Papa Ratzinger al soglio pontificio. Evento per il quale l’aggettivo “straordinario”, una volta tanto, non poteva essere incolpato di abuso. E in effetti le dimensioni di quel che successe, furono talmente grandi, che tutti ne restammo spiazzati.

Ai tempi scrissi alcune cose – non indispensabili, non imperdibili, che non resteranno, insomma – che giravano molto intorno alla superficialità con cui la notizia era stata accolta dall’opinione pubblica. Lo stesso uso del termine “dimissioni” nei primi commenti – successivamente sostituito con il più adatto “rinuncia – era a mio avviso sinonimo di questo. Mi ricordo che battevo molto sul fatto che non si trattava di “dimissioni” comuni: parlavo di banalizzazione del gesto, parlavo di desacralizzazione e via dicendo (per esempio una cosa che avevo scritto, si può leggere qui).

Il fatto era che si tralasciava, a mio modo di vedere, con troppa leggerezza che la rinuncia di quell’anziano uomo al suo incarico, non era cosa accomunabile a nient’altro: perché quell’uomo, non era semplicemente un uomo. Era il Vicario di Dio in Terra. Per lui la considerazione “è anziano, giusto che lasci” non aveva valore, non aveva il valore comune per lo meno, non lo aveva ancor più sotto l’aspetto dogmatico che la sua esistenza rappresentava. Le “dimissioni” – la rinuncia – riproducono un gesto molto diverso da quello di un leader politico o di governo che lascia il suo ruolo, di un re che abdica il suo trono, e via dicendo. E temevo che questo aspetto fosse sfuggito al comune pensare, magari lasciando spazio a profezie rocambolesche, magari messo in secondo piano dagli umani affari – l’anzianità, il rinnovo generazionale, lo svecchiamento totale.

Ammetto candidamente, che ero per certi aspetti uscito fuori bersaglio: le mie critiche erano imprecise. Quello che mi sfuggiva era un fatto fondamentale, legato all’evento in sé, ma soprattutto all’evento rapportato alle nostre vite. Perché tutto è arrivato in modo talmente straordinario, che non siamo stati in grado di affrontarlo, di comprenderlo: siamo rimasti spiazzati, dicevo prima, e abbiamo reagito con gli unici strumenti che avevamo – quelli terreni, certamente. È tutto qui.

Per capirci, è come se fosse successo un qualche cosa per cui non eravamo programmati, qualcosa di cui non avevamo mai sentito parlare prima – al di là di quel Celestino V di cui pochi ricordavano la storia e del Canone 332 comma 2 del Codice di Diritto Canonico (quello che prevede la rinuncia). Uno squilibrio di sistema unico, uno scenario inimmaginabile – senza accedere a sensazionalismi, ma con le vere accezioni dei termini. Per capirci meglio, saremmo stati predisposti a reagire psicologicamente e culturalmente a un invasione aliena, alla caduta catastrofica di un sistema economico globale come a quella di un asteroide, all’uccisione di leader politici di importanza planetaria, a eventi naturali tragici di dimensioni parossistiche: eravamo pronti perfino alla morte di un Papa, improvvisa, repentina; ma alle sue dimissioni no. Non eravamo programmati per questo.

Non c’erano stati precedenti memorabili nella storia e tanto meno (come nel caso degli alieni) se ne parlava nell’immaginario artistico – con la sola eccezione, tanto discussa quanto ritenuta implausibile, di quel'”Habemus Papam” di Moretti, che per altro prevedeva circostanze diverse.

Il punto è stato allora, che gli strumenti socio culturali di cui disponevamo, erano esattamente gli stessi che avremmo usato per affrontare circostanze terrene simili a quelle sopra citate; strumenti sbagliati, strumenti umani, strumenti utili per trattare soltanto la parte più epidermica di quello stava succedendo, ma inadeguati per il resto.

Ecco allora, che la critica che facevo ai tempi viene meno, manca di corpo, perché il problema è che nel succedersi immediato, noi non è che non abbiamo voluto affrontare gli eventi con la giusta profondità: è che in realtà non abbiamo potuto farlo.

Non si è trattato di superficialità, di banalizzazione, ma di disorientamento. Noi non sapevamo come affrontare una notizia, una circostanza, del genere.

Serve tempo per comprendere, serve tempo per pensare, serve tempo per capire. Con ogni probabilità non ci sono colpe di tale carenza: non c’è un qualche responsabile – il denaro, la società, internet, l’ignoranza, che siano – di quello che è successo. Perché, ripeto, è stata la straordinarietà dei fatti a dettare le nostre reazioni.

Spiazzati, terribilmente umani.

E la stessa reazione all’elezione del quasi sconosciuto Bergoglio è stata la conferma di quel che sto dicendo: l’acclamazione a scatola chiusa, il giubilo davanti ai primi discorsi, sono stati – guardando certamente dietro la densità e la validità del messaggio trasmesso fin da subito – il segno di una necessità di nuova stabilizzazione. Di ritrovare il riferimento smarrito, di tornare al punto certo e conosciuto.

Di più: la mia stessa critica – che sia ben chiaro non era fasulla, ma trovava pieno fondamento nei discorsi che si sentivano in giro – è stato una altro segnale di questo spiazzamento. Mancando il punto, non capendo che la reazione che avevo di fronte era completamente ovvia, umana, terrena, appunto.

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