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“La vita è un’immensa partita a scacchi, l’importante non è vincere o perdere, bensì essere un giocatore e non una pedina. Perché il giocatore è il fautore del proprio destino anche nella sconfitta, mentre la pedina è vittima degli eventi anche nella vittoria”
(Dino Notte)

Partiamo da un assunto di base: il capitalismo intellettuale e l’economia della conoscenza sono i propulsori della rivoluzione silenziosa del nostro millennio. La conoscenza è potere perché è diventata il motore fondamentale dell’innovazione e della capacità concorrenziale di imprese e sistemi-Paese a livello globale. L’uomo, il detentore della conoscenza, ritrova in tal modo un posto centrale nel sistema capitalistico: la competizione diventa antropocentrica e si sviluppa sul valore generato dalla creatività e dalla professionalità delle persone e sul contributo delle innovazioni tecnologiche. E’ la sintesi finale, la simbiosi vincente, la saldatura competitiva tra economia, conoscenza e tecnologia.

Una vera e propria rivoluzione di rete che sta mettendo in discussione le istituzioni formali e concettuali del passato. I confini nazionali, l’ordine pubblico, l’appartenenza di classe, la fabbrica, vengono infatti scavalcati o superati dalle reti locali e globali di scambio e condivisione delle informazioni a cui partecipano soggetti individuali, sociali, imprese, istituzioni, movimenti culturali.

Pensiamo al ruolo svolto da Facebook e Twitter nella comunicazione di fatti ed eventi drammatici: le guerre dei saperi e delle informazioni diventano le guerre di potere dell’economia della conoscenza ed hanno come palcoscenico reti tecnologiche e media, e come nodi di contatto i blog, i social network e le persone. E’ qui che emerge il significato profondo del capitalismo intellettuale: spostare la visione dell’economia e della società dal processo di produzione a quello di condivisione attraverso la creazione di reti che facilitano la condivisione intelligente di quanto le persone conoscono, sanno e sanno fare.

In ogni caso, bisogna essere pronti a rispondere al cambiamento perché la nostra vita è fatta di un costante stato di cambiamento. E questo, nell’era del capitalismo intellettuale, significa che il lavoro che innova diventa più importante del lavoro che replica ed esegue. Oltretutto, se tutto diventa più rapido, anche il tempo di vita di una competenza o di un prodotto non si misura più in anni ma, addirittura, in mesi. Le stesse imprese nascono e muoiono con un ritmo incomparabilmente più rapido rispetto a prima. Ergo: la nostra sicurezza economica/professionale non può più essere affidata al modello del posto fisso. Il vero obiettivo da raggiungere è quello della “continuità professionale”: attrezzarsi per cambiare spesso posto di lavoro potendo contare, durante le pause, su processi formativi ed incrementi di know-how che consentano una ricollocazione più facile.

(continua)

politica

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