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Nel 1776, Adam Smith pubblica “La ricchezza delle Nazioni”, in quei tempi il debito pubblico inglese era particolarmente rilevante, Adam Smith dedica l’ultimo capitolo al debito pubblico. Ne sintetizziamo il pensiero. Il debito pubblico veniva considerato una “partita disonorevole”, “la pratica rovinosa dei prestiti”, “l’espediente rovinoso dei prestiti perpetui”, “l’aumento degli enormi debiti che oggi ci affliggono e a lungo andare probabilmente manderanno in rovina tutte la grandi nazioni europee…”.

LA STORIA ECONOMICA DELLA GERMANIA

Tutte le nazioni?, non sembra. Precisa infatti: “Si dice che l’attuale re di Prussia e il suo predecessore siano i soli grandi sovrani d’Europa che abbiano accumulato un ingente tesoro”. Anche 240 anni fa il modello economico-culturale della Germania evidenziava la sua superiorità nel panorama europeo.
Smith ricorda che il debito fluttuante contratto negli ultimi cinquantanni divenne man mano perpetuo, le imposte quindi soddisfacevano solo il pagamento degli interessi. “Fronteggiare le esigenze presenti è sempre l’obbiettivo che principalmente interessa coloro che sono coinvolti nell’amministrazione degli affari pubblici. La futura liberazione dell’entrata pubblica viene lasciata alla cura della posterità”.
La riduzione della necessità di cassa avveniva solo per una variazione dell’interesse sul debito: “i creditori dello stato furono indotti ad accettare il cinque per cento, il che provocò un risparmio dell’uno per cento”. Ma questo risparmio è “sempre a disposizione per essere ipotecato […] per qualsiasi esigenza dello stato”. “E il governo trova sempre più conveniente sostenere nuove spese ricorrendo (al risparmio) anziché istituire una nuova imposta”.

IL DEBITO INGLESE

Smith analizza l’effetto delle imposte sui cittadini: “ogni nuova imposta è immediatamente sentita dalla gente. Essa provoca sempre qualche scontento ed opposizione… la gente si lamenta di ogni nuova imposta e tanto più difficile diventa trovare nuovi oggetti di imposizione o aumentare le imposte già in essere”. Ne discende che “quanto maggiore è il cumulo dei debiti pubblici […] tanto meno è probabile che il debito pubblico venga ridotto in maniera sensibile”.
La crescita del debito pubblico inglese fu iperbolica: nel 1697 era di 21,5 milioni di sterline, nel 1701 si ridusse a 16,3 milioni, nel 1714 era diventato di 53 milioni, nel 1739 dopo diciassette anni di pace era diminuito a solo 46 milioni, nel 1748 era salito nuovamente a 78,3 milioni di sterline, nel 1764 era pari a 139,5 milioni sterline, nel 1775 era di 129.966.086 di sterline.
Smith era molto preoccupato per la situazione debitoria del suo paese. Analizza la tesi ricorrente dell’epoca – il debito essendo detenuto dai cittadini inglesi non creerebbe problemi – “la mano destra non fa altro che pagare la mano sinistra, è soltanto una parte di reddito di una categoria di cittadini che viene trasferita all’altra”, egli conclude che comunque “non sarebbe per questo meno dannoso”. Affronta l’imposizione fiscale finalizzata al pagamento degli interessi: troppe tasse possono determinare il trasferimento dei capitali e “l’attività del paese necessariamente decadrà” perché “il reddito può venire talmente sminuito” che si è “nell’impossibiltà assoluta di fare” e si è “continuamente esposti alle mortificazioni e vessatorie visite degli esattori del fisco”.

QUALE SOLUZIONE?

Che fare dunque? Non vi è soluzione per Adam Smith : “la liberazione del debito pubblico, se mai si è realizzata, è sempre stata mediante bancarotta… anche se spesso mascherata.. l’aumento della denominazione della moneta è stato l’espediente più comune”. La soluzione praticata dai governanti del’epoca era dunque una svalutazione mascherata, ovvero creazione dell’inflazione.
Soluzione – questa – analizzata dagli economisti statunitensi Carmen M. Reinhart e M. Belen Sbrancia nel loro Paper pubblicato nel marzo 2011 dal titolo “The liquidation of Government debt” fruibile in internet nel quale viene evidenziato che storicamente l’aumento eccesivo del debito si è sempre poi risolto in una sua ristrutturazione. La regia definita dai governanti nel controllare il debito pubblico e volta alla sua riduzione viene definita dagli autori “repressione finanziaria”. Essa consiste in una serie di vincoli più o meno espliciti sui tassi di interesse, sulla regolamentazione dei movimenti transfrontalieri di capitali, sui rendimenti pensionistici e generalmente viene cementata da uno più stretto legame fra il governo e le banche finalizzata ad una allocazione indotta del risparmio nazionale nei titolo di debito statali. Nei mercati finanziari fortemente regolamentati dal sistema di Bretton Woods, diverse restrizioni hanno facilitato una rapida riduzione del rapporto debito/PIL dalla fine degli anni 1940 al 1970. Infatti i tassi di interesse nominali bassi contribuirono a ridurre i costi al servizio del debito e una elevata incidenza dei tassi di interesse reali negativi liquidò o erose il valore reale del debito pubblico.

IMPARARE DAL PASSATO

Così, la repressione finanziaria è riuscita a onorare i debiti – che come nel caso dell’Inghilterra era nel 1947 pari al 247 % del PIL – in quanto accompagnata da una costante di inflazione. Nelle economie avanzate i tassi di interesse reali furono negativi quasi la metà del tempo, durante il 1945-1980, nell’ordine del 2 – 3 % del PIL, e questo permise dopo 35 anni di aver quasi estinto completamente i debiti createsi con la seconda guerra mondiale.
Il rapporto Debito-PIL raggiunse il suo apice nel secolo scorso nel 1945 per poi gradualmente scendere sul finire degli anni settanta e risalire nel 2011 a livelli pari al precedente picco. Oggi con la politica del Quantitative Easing statunitense e giapponese degli ultimi due anni siamo a livelli superiori, secondo una mia stima oltre il 130 per cento considerando anche i derivati.
La conclusione degli autori è molto chiara: per affrontare l’attuale eccesso di debito, le politiche simili a quelle attuate nel periodo 1945- 1980 possono riemergere sotto le spoglie di regolamentazione prudenziale, piuttosto che sotto l’etichetta politicamente scorretta di repressione finanziaria ma con un distinguo: dopo la seconda guerra mondiale, l’eccesso era è limitato al debito pubblico, in quanto il settore privato aveva già dolorosamente sofferto “develereggiando”, sia con la crisi del 1929 che con la guerra.

Ora, invece, allo stato attuale, l’eccesso di debito di molte economie avanzate da affrontare, comprende (in varia misura), famiglie, imprese, istituzioni finanziarie e governi. In altri termini arriverà un earthquake finanziario.

Gianluigi Longhi, direttore della Centesimum Annum di Bologna

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