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Nelle ultime 24 ore, una serie di attacchi ha colpito basi militari degli Stati Uniti in diverse parti del Medio Oriente, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza delle forze statunitensi nella regione e sull’allargamento del conflitto tra Israele-Hamas. Allargamento che significherebbe un aumento del ruolo iraniano, anche perché molti degli attori coinvolti fanno parte del cosiddetto Asse della Resistenza, attorno a cui Teheran ha strutturato una galassia di milizie collegate alla Repubblica islamica, sia dai valori ideologici dell’internazionale sciita che da forniture militari ed economiche.

Attacchi in Iraq, Siria, Yemen, Libano mentre ci si prepara all’invasione di Gaza

Gli eventi hanno incluso un attacco alla base di Ain al-Assad in Iraq, che ospita truppe americane. Inoltre, la postazione tra pozzi di petrolio Konoco nell’est della Siria. Poi è toccato alla base nel settore di Al Tanf, anch’essa in Siria, dove sono acquartierate forze occidentali che continuano la lotta allo Stato islamico.

Inoltre, una nave militare degli Stati Uniti, il cacciatorpediniere USS Carney, ha intercettato alcuni missili diretti dallo Yemen probabilmente verso il territorio israeliano, mentre navigava nel Mar Rossi. Aggiungendo ulteriori preoccupazioni alla situazione, la base militare all’interno dell’aeroporto internazionale di Baghdad, utilizzata congiuntamente dalle forze statunitensi e della Coalizione internazionale che combatte i rischi di nuova insorgenza dell’IS, è stata colpita da diversi razzi durante la notte.

Nel pomeriggio di giovedì, sia il primo ministro Benajamin Netanyahu che il ministro della Difesa israeliano hanno incontrato le truppe in differenti luoghi tenendo discorsi che non lasciano dubbi sull’avvio di un attacco di terra a Gaza entro pochi giorni. La campagna contro i target di alto profilo di Hamas è già iniziata, ma potrebbe non scongiurare l’operazione terrestre sulla fascia settentrionale della Striscia di Gaza. Un’azione con cui sdradicare letteralmente i gruppi armati.

Cosa arriverà dopo?

È lo scenario preoccupante attorno a chi ruotano le attività diplomatiche da due settimane. C’e il rischio escalation, con aumenti dei coinvolgimenti regionali — di cui i recentissimi attacchi, dalla Siria allo Yemen, dal Libano all’Iraq, sono indicatori — e c’è il grande problema strategico interno: se Hamas dovesse perdere il potere, cosa potrebbe prendere il suo posto? Cosa arriverà dopo? È questa la domanda che Joe Biden avrebbe posto mercoledì quando ha incontrato i funzionari israeliani. Non ha ottenuto una risposta chiara, perché non ce n’è una.

Sommatoria del piano interno all’escalation è il rischio che il primo allargamento degli scontri armati non riguardi solo la regione, ma direttamente Israele. Dai territori palestinesi della Cisgiordania per ora non ci sono stato movimenti e azioni. Tuttavia è probabile che davanti all’invasione israeliana della Striscia. Se non Fatah di Abu Mazen, i gruppi minori o cellule di Hamas e Jihad islamica palestinesi, potrebbero mobilitarsi. Nonché i territori potrebbero essere usati per infiltrazioni di proxy iraniani (Hezbollah ha per esempio buoni contatti con quell’area).

D’altronde, al di là di piani organizzati, tra gli effetti della situazione in ebollizione c’è la sensibilizzazione delle collettività arabe contro Israele. Mentre le postazioni occidentali venivano colpite in diversi Paesi del Medio Oriente con fini tattici, le collettività arabe e islamiche infatti manifestavano l’indignazione pregiudiziale che guida le relazioni con Gerusalemme. In Bahrein, decine di manifestanti hanno marciato verso l’ambasciata israeliana a Manama prima di essere dispersi dalla polizia. L’ambasciata è stata aperta come conseguenza degli Accordi di Abramo per normalizzare i rapporti diplomatici, a cui Manama ha aderito sin da subito per volontà strategiche che i cittadini non hanno mai sentito come proprie priorità (anche per via di una turbolenta comunità sciita bahrenita).

Manifestazioni del genere – condite di slogan anti-americani e anti-occidentali – ci sono state in Giordania, Marocco (altro firmatario degli Accordi), Egitto, e ovviamente Libano e Iran. Il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, protagonista dei colloqui per la più spettacolare delle normalizzazioni con Israele, ha chiesto che si istituisca subito uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967. Bin Salman ne ha parlato durante il suo discorso al vertice tra il Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) e l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) che si svolge oggi a Riad. L’Asean ha chiesto l’immediato “cessate il fuoco”, che è una linea ambigua sostenuta anche dalle manifestazioni pro-palestinesi: Indonesia, Malesia e Brunei sono Paesi a maggioranza musulmana del blocco che non riconoscono Israele e che hanno sulla situazione una posizione simile a quella del mondo arabo.

I diplomatici israeliani sono stati fatti ritirare dalla Turchia per ragioni di sicurezza. Migliaia di persone ieri sera sono scese in strada anche a Parigi, sfidando il divieto a manifestare con la bandiera della Palestina. Lo stesso è accaduto a Barcellona e in altre città del mondo. Berlino ha alzato la protezione del mortale dell’Olocausto, perché questo potrebbe essere un nuovo “Venerdì della rabbia”, in cui alle proteste si potrebbero abbinare a gesti estremisti — anche compiuti da fanatici non coordinati con la causa palestinese e auto-radicalizzati (a beneficio dei grandi gruppi come l’IS che incassa successo narrativi e dunque proseliti).

I rischi di un reale allargamento dello scontro (contro l’Occidente)

La realtà è che queste manifestazioni abbinano alla dimensione naturale anti-israeliana una linea narrativa che si distacca dal secco sostegno alla Palestina, ma sfocia nell’anti-occidentalismo. D’altronde, è stato il ministro degli Esteri giordano a spiegare chiaramente la situazione: c’è una “crescente percezione che si tratti di una guerra tra Occidente e il mondo arabo-musulmano”, poiché la gente vede “un sostegno corazzato” a Israele da parte di Stati Uniti e ed Europa, ha detto alla Cnn.

La situazione sta assumendo un ulteriore livello di complessità dunque. Anche perché, la Cina è in una fase di “full propaganda”. I media del Partito/Stato cinese stanno diffondendo apertamente la linea di Hamas, per esempio sulle ricostruzioni dell’esplosione all’ospedale al Ahli di Gaza – una delle ragioni che ha portato un ulteriore surriscaldamento della situazione. Pechino ignora volutamente le numerose prove (video, telefonate intercettate, tempistica del lancio di razzi, fonti israeliane) che dimostrano come a causare la deflagrazione nell’edificio potrebbe essere stato un razzo del Jihad islamico palestinese.

Questa linea cinese è in contrapposizione con quella occidentale, che non solo sta accreditando il valore delle Osint e delle informazioni diffuse dalle intelligence americane ed europee sul ruolo del Jihad, ma sta anche ridimensionando gli effetti, seppure tragici. Per i media cinesi le vittime civili sono state “oltre 500”, come dai primi dati, mentre fonti dei media internazionali hanno sensibilmente ridotto il danno a poche decine. Ma per Pechino, diffondere informazioni differenti serve per disarticolare la posizione occidentale e spalleggiare quella del Global South, soprattutto quelle componenti arabe, e le tendenze anti-occidentali di questa fetta di modo.

Gli effetti sono complessi, l’infowar è parte determinante di ogni conflitto, ma ancora di più in queste situazioni asimmetriche – e in un contesto temporale come questo, dove le informazioni e le loro alterazioni viaggiano rapidissime sui social network. Per esempio: diversi media hanno riportato che l’ambasciata israeliana di Manama era stata oggetto di lanci di molotov, perché sui social sono circolate immagini – che però riguardavano l’assalto in una stazione di polizia del 2012.

Antony Blinken – il segretario di Stato americano a cui si deve la guida di un’intensa attività diplomatica per evitare l’innescarsi del contagio regionale della crisi – ha dovuto scrivere una lettera al personale musulmano del suo Dipartimento, per spiegare la posizione americana e le azioni di Washington in questo momento. “Alcuni dei nostri colleghi nella regione, soprattutto tra i dipendenti locali, sono stati colpiti direttamente dalla violenza, anche perdendo persone care e amici. Altri hanno sentito le ripercussioni della paura e del bigottismo alimentati dal conflitto, anche negli Stati Uniti, dove i crescenti atti di odio contro gli arabi americani, i musulmani e gli ebrei fanno sentire le persone vulnerabili nelle loro comunità, semplicemente per quello che sono o per quello in cui credono”, ha scritto Blinken.

E ancora: “Piangiamo la perdita di ogni vita innocente in questo conflitto – israeliani e palestinesi; musulmani, ebrei e cristiani; persone di ogni nazionalità e fede. Vediamo in quelle vittime i nostri stessi figli, genitori, partner, amici. E in tutti loro vediamo degli esseri umani”. E infine: “Ecco perché il presidente Biden ha chiarito fin dall’inizio della crisi […] che mentre sosteniamo pienamente il diritto di Israele di difendersi, il modo in cui lo fa è importante. Ciò significa agire in un modo che rispetti lo stato di diritto e gli standard umanitari internazionali”.

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