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Ci salverà l’Intelligenza Artificiale dai danni di una dilagante ignoranza? Chissà. Sta di fatto che le classifiche di ogni ordine e grado, nazionali e internazionali, sui livelli di studio e apprendimento nelle scuole, sono sempre più sconfortanti. L’Ocse non colloca ai primi posti, anzi, il Belpaese: sia per la matematica, sia per le scienze, sia per la comprensione del testo. Anche la Francia non se la passa bene nell’istruzione. Il che deve aver indotto il ministro Gabriel Attal ad annunciare una sorta di elettrochoc (testuale da parte sua) per ridare slancio, credibilità e prospettiva al sapere d’Oltralpe.

Come? Ripristinando le bocciature nelle aule scolastiche. Addio egualitarismo, addio tutti promossi, semmai sì alle classi divise in base al livello di conoscenza raggiunto dai ragazzi. Una selezione severa da attivare già dalla scuola media inferiore, non soltanto al liceo. Questo vogliono fare in Francia. Ora. Non sappiamo quale sarà il destino della riforma ipotizzata dal ministro francese. Non sappiamo se il provvedimento farà strada o sbanderà dopo il primo ostacolo sul suo cammino. Sappiamo, o meglio immaginiamo solo, che se un proposito simile fosse annunciato in Italia si scatenerebbe una rivoluzione più sanguinosa di quella di Spartaco più di due millenni addietro. Eppure se c’è una riforma che potrebbe dare una scossa al Sistema Italia, anche in termini di produttività economica, quella di una scuola più rigorosa, di com’è oggi, sarebbe la più efficace.

In Italia si legge e si studia pochissimo. E sempre meno. Gli indici di lettura di libri e giornali sono da Paese equatoriale. I livelli di studio di laureati e diplomati scendono di anno in anno. Lo stesso analfabetismo di ritorno, di tipo funzionale e/o funzionariale, avanza in tutti i settori, grazie anche alla distrazione permanente alimentata da Internet e dai social in particolare. C’è chi ormai non sa fare di calcolo e chi, nel confrontarsi con un testo scritto o parlato, capisce una cosa per un’altra.

E però guai a mettere in discussione l’approccio egualitario nel giudicare chi va a scuola. Guai a invocare il ritorno dei voti, guai a stimolare una sana competitività tra i ragazzi. Si corre il rischio di incorrere in una scomunica, in una condanna inappellabile da parte del sistema, o del mainstream, che non è formato solo dai docenti, ma è monopolizzato soprattutto da famiglie e organi di informazione, da formazioni politiche e sodalizi culturali.

E però gli stessi esponenti dell’affollatissimo partito unico dell’egualitarismo sono spesso tra i primi ad alzare il dito quando i servizi non funzionano; quando si verificano i casi di malasanità; quando le cure prescritte a un loro congiunto denotano approssimazione e superficialità; quando le case in cui si abita non sono il top della sicurezza e della comodità; quando l’amministrazione della giustizia presenta manchevolezze dettate da una non eccelsa professionalità di magistrati e/o avvocati.

Insomma. Da un lato si invoca il todos caballeros e l’uguaglianza dei punti di arrivo, dall’altro si pretende, giustamente, il massimo della qualità nelle prestazioni professionali (degli altri). Ma le due aspettative, le due pretese, diplomi di massa e competenze da Premi Nobel, sono antitetiche come mele e arance. Se i corsi di studio sono laschi e permissivi, nel segno di una malintesa inclusione sociale, anche il tasso qualitativo dei futuri laureati e professionisti non sarà straordinario. Le conseguenze ricadranno soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione, quelle che meno potranno consentirsi di sostenere le spese di un’assistenza professionale migliore.

Ha davvero del paradossale, perciò, questa contraddizione concettuale che si riscontra nei discorsi ordinari di ogni giorno. Si reclamano, in contemporanea, l’egualitarismo studentesco e l’eccellenza professionale, la standardizzazione giovanile e il selettivismo post-giovanile. Ma una cosa tende ad escludere l’altra. Certo, può capitare che, nelle aule universitarie, ci si innamori dello studio o dei libri come non era mai accaduto in precedenza. Ma sono casi sporadici. Quasi sempre l’attrazione per i libri scatta in età adolescenziale, o addirittura prima. E quasi sempre le lacune culturali accumulate da piccoli rimangono tali pure quando si cresce o ci si fa strada nella professione.

Servirebbero due-tre di domande per indurre i pasdaran dell’uniformità valutativa, e del diritto al diploma per tutti, a riconsiderare il loro dogma egualitaristico:

1) Accettereste di far curare vostro figlio o di fare curare voi stessi da un medico dal curriculum scolastico modesto?

2) Accettereste di far progettare la vostra casa da un ingegnere o da un architetto approdati a fatica alla laurea, dopo un percorso scolastico tutt’altro che irresistibile?

3) Accettereste di farvi difendere in tribunale da un avvocato da sempre poco allenato ai codici?

Forse sarebbero sufficienti queste domande per indurre i più a rivedere il preconcetto, l’ostilità nei confronti di una scuola che insegna e seleziona, anziché massificare e omologare (verso il basso). Ma sono domande che, chissà perché, non trovano spazio nei conciliaboli, nelle relazioni di ogni giorno. Salvo scoprire che molti tra quanti ripetono il principio che non bisogna lasciare indietro nessuno, siano adusi a inveire contro quella struttura professionale o contro quel professionista inadeguato quando l’effetto di un loro intervento si rivela nefasto per la salute, per la sicurezza o per la libertà.

La Francia ha iniziato a prendere in considerazione l’idea di ritornare al passato, nella scuola, ripescando l’istituto della bocciatura. L’Italia farebbe bene a mettersi in scia. Tornare al passato non è “indietrismo”, come teme qualcuno. A volte è “avantismo”, o progresso, come direbbe un redivivo Giuseppe Verdi (1813-1901).

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