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Parlano, ma i loro toni di voce sono incommensurabili, i loro stili riconoscibili e tali da proiettare le loro esistenze su piani che non comunicano, che fanno degli uni le nemesi attive e viventi degli altri: generazioni di scriventi le cui parole contrapposte aspirano a quella visibilità che, però, non sarà di tutti: anzianotti, i primi, e “giovani promesse”, anche se già affermati protagonisti del dibattito letterario e, più generalmente, culturale, i secondi.

Facciamo così: essendo il contenitore dei giovani più vasto e tendenzialmente privo di margini, tanto che è arduo rinvenire un trenta-quarantenne che, superati gli anni dell’obbligo scolastico, non abbia pubblicato un proprio volumetto – alcuni, un volumone, addirittura, perché scrivere non costa nulla, anche se pubblicare sì, spesso, ma i finanziamenti parentali sembrano comuni -, ciascuno applichi a chi vuole il ritrattino che di loro verrà a crearsi, ché non si faranno nomi.

Gli anziani, invece, idiosincratici, un po’ burberi e difficilmente categorizzabili, essendo stati capaci di guadagnarselo, il proprio nome, ed essendo, numericamente, surclassati dalla strapotente presenza dei nuovi, è bene individuarli: è Boris Pahor a guidare la smilza truppa, dall’alto dei suoi cent’anni tondi tondi; poi, raramente, ci si ricorda di Manlio Cancogni, il quale, dall’eremo versiliano di Fiumetto, concede amabili interviste a sparuti e divertiti giornalisti; e c’è Raffaele La Capria, uno che ha intensificato la propria produzione, una volta superati gli ottanta, e sorpassato, soprattutto, l’impegnativo “Meridiano” che Mondadori ha voluto dedicargli, come a voler rimandare il momento della mummificazione critica, e testimoniando, così, una linfa artistica e vitale tutt’altro che esaurita. Philip Roth? Lui è un ragazzino, se confrontato a chi lo precede. Se, però, vogliamo aggiungere il suo nome ai loro, gli anni entro i quali possiamo abbracciare questa grande generazione finiscono per essere venti, e vanno dal 1913, data di nascita dello scrittore sloveno, al 1933 dello statunitense.

In mezzo alle due generazioni, che cosa? Quali le esperienze che dividono i TQ e gli ON? Il Sessantotto? No, quello non ha colpe dirette, stavolta: indirettamente, potrebbe riguardare i padri dei TQ, non loro stessi. Esperienze formative o trasformative troppo diverse sono state vissute dai nonni e dai nipoti – nati dal 1973 al 1983, poniamo, questi ultimi, per conservare una simmetria -: una guerra combattuta, e non “visionata” dalla poltrona di casa, una curiosità partecipe dei fatti del mondo, la virtù del sapersi meravigliare, e non la volontà estenuante ed estenuata, stanchissima, post-avanguardistica e neo-conformistica di stupire, costi quel che costi, di lasciare a bocca aperta tutti quelli che non desiderano altro: croce nostra che è la delizia di questo capitalismo culturale: l’offerta crea la propria domanda, e chi è desideroso di stupire incontrerà chi ricerca gli stupori facili, e vissero tutti storditi e contenti.

L’utilizzo spudorato delle maschere più efficaci, inaugurato dopo l’intuizione della moda cromatica – le tinte che vanno per la maggiore, e non da oggi, sono quelle fosche -, l’esibizione ossessiva delle pose più remunerative: c’è bisogno di qualcuno che inviti alla riflessione, alla pensosità? Abbiamo il giovane che fa per noi: con solerzia, dichiarerà che dovremmo smettere di dare tanto peso al denaro, che si devono riscoprire i valori umani, che conta l’essere e non ciò che appare, che si legge troppo poco, in Italia. Volete qualche brivido di proibito, per movimentare giornate tutte uguali? Basta rivolgersi al neo-contestatore che ha appena dato alle stampe un romanzo che recupera tutta la tensione utopica di qualche decennio fa. Quando la generazione degli ON sarà scomparsa, potremo tutti dedicare più tempo alle tele-visioni, finalmente, perché poco di sincero sarà rimasto da leggere.

I Trenta-Quarantenni e gli Ottanta-Novantenni

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