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Ulivista della prima ora, democratico ante-marcia, Arturo Parisi, classe 1940, docente universitario e già ministro della Difesa prodiano, ha vissuto politicamente in prima persona il ventennio berlusconiano quello che, secondo Enrico Letta, sarebbe finito.

Professore, è davvero finito questo il Ventennio del Cavaliere, come ha detto il premier?

Non credo. Forse, e sottolineo il «forse», sarà finito il ventennio di Silvio Berlusconi, non certo quello berlusconiano. Quest’ultimo sarà finito, non quando B. sarà di nuovo sconfitto, come ho sentito rispondere a Letta da sponde Pd: in questi venti anni il Cavaliere è stato già sconfitto due volte. E sconfitto tra i cittadini non da una oscura manovra di palazzo incoraggiata e favorita da una condanna giudiziaria.

E quando finirà, allora?

La stagione di B. finirà solo quando il centrodestra troverà un leader nuovo perché investito da una propria legittimazione popolare, a prescindere da Berlusconi, e non invece grazie ad una investitura proveniente in toto o in parte da lui stesso. Se, come temo, un ventennio è finito, si tratta di un altro.

E quale?

Quello aperto nel 1994 dal maggioritario introdotto dai cittadini col referendum del 1993. D’altra parte come chiamare «berlusconiano» un periodo nel quale dei dodici governi che si sono succeduti, sei sono stati guidati da esponenti di centrosinistra, quattro dal centrodestra, e due da tecnici centristi come Lamberto Dini e Mario Monti?

Non ha torto. Ma tornando a B., secondo lei, che lo ha affrontato da avversario in questi lunghi anni, che cosa farà in caso di decadenza? Davvero guiderà il Pdl dagli arresti domiciliari o la sera, rientrato dai servizi sociali? O c’è piuttosto il rischio di un finale più «camainesco», nel senso del film di Nanni Moretti, come sostiene qualcuno?

Prima che una malattia o una vocazione, per Berlusconi, la politica è una necessità. Così è stato all’inizio della sua discesa in campo, così sarà fino alla fine. Come nessun altro in una democrazia di fronte alla tigre politica, invece di affrontarla o fuggire, ha scelto di cavalcarla, sapendo che la sua ferocia non consente a nessuno di scendere dalla sua groppa senza rischiare di finire sbranato. Proverà perciò fino alla fine a cavalcarla.

Addirittura…

Certo e non basterà a sgropparlo né una sentenza che lo costringe fuori dalle istituzioni, e neppure l’abbandono di una parte dei suoi.

Appunto, veniamo ai suoi che se ne vanno. Che natura hanno questi movimenti nel Pdl? Nasce un soggetto politico nuovo, più europeo, o c’è un disegno neocentrista di prospettiva un po’ più bassa?

Prima che un disegno il centrismo è una dinamica e ancor prima una cultura. L’idea della politica come compromesso, non come scelta, e scelta tra proposte di scelta. Al di là del riferimento alle etichette europee è questo il rischio oggi presente. La fine della idea che in ogni momento esistano più alternative, la convinzione che la soluzione sia sempre una sola. La convinzione che si possono pure cambiare i suonatori purché la musica resti la stessa. Il rischio è la resa alla continuità, la denuncia del cambiamento come illusione. Quello che temo non è il pessimismo della ragione, ma il trionfo della indifferenza, l’abbandono di ogni tensione ideale con la scusa della fine delle ideologie.

Si tratterebbe di neocentrismo che nasce da due sponde: una a destra ma una anche a sinistra. Inevitabilmente proporzionaliste entrambe. Lei che è sempre stato un propugnatore del maggioritario, vede questo pericolo come reale?

È appunto questa la mia preoccupazione. Troppi sono i segni premonitori. Dalla spinta al tornare al proporzionale con l’intenzione di correggere l’eccesso maggioritario che, grazie al Porcellum, ha trasformato alla Camera il 25% dei voti Pd nel 47% dei seggi. Alla diffusa nostalgia del bel tempo antico che ha consentito, ad esempio, a Letta di cantare recentemente in parlamento le lodi della stabilità dei governi dei primi 25 anni della nostra democrazia, tralasciando il dettaglio che gli anni furono sì 25 ma i governi furono 27.

Non la sento un fan della stabilità…

Non è questa stabile instabilità che serve all’Italia, nella quale la stabilità è quella che ci è imposta dal quadro esterno e l’instabilità è quella prodotta e riprodotta continuamente nei rapporti interni. Né possiamo accontentarci di misurare la stabilità attraverso la durata. La durata è infatti la semplice dei giorni passati, la stabilità è invece la possibilità di progettare quelli futuri.

Leggi l’intervista completa su Italia Oggi

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