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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento del direttore del quotidiano Italia Oggi Pierluigi Magnaschi.

Contro l’evidente leaderismo di Matteo Renzi, Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema oppongono la necessità della gestione collettiva del partito. Dello stesso parere sono anche i pulcini di questi ultimi due leader e cioè Gianni Cuperlo e Fabrizio Barca. Tutti e quattro infatti si rifanno alla vulgata marxista in versione per il pubblico. Il dilemma però è di lana caprina.

Primo, perché non c’è squadra (politica, aziendale, militare, religiosa, sportiva) che non si esprima e diventi credibile senza disporre (ed esibire) un capo. Secondo, perché anche coloro che fanno finta di credere nelle scelte di una base lasciata a se stessa e che secernerebbe autonomamente linee politiche hanno addirittura praticato (quando erano Pci) il centralismo democratico in cui c’era un solo leader indiscutibile al comando (da Palmiro Togliatti, non a caso definito «il Migliore», per antonomasia, a Enrico Berlinguer, altrettanto indiscutibile da chiunque nel partito).

Ma anche dopo, quando il Pci si è diluito, prima nel Pds, nel Ds e poi nel Pd, il ferreo controllo della base da parte del centro è stato costante. Anche Pier Luigi Bersani, che è il più accanito sostenitore formale del decentramento decisionale e il più fermo oppositore, a parole, di un capo che guidi il partito ha, grazie al Porcellum, sistemato in Parlamento la stragrande maggioranza dei deputati e dei senatori che fanno parte del suo entourage e che obbediscono alla sua corrente. Il cosiddetto dibattito nel partito non è mai salito dalle sezioni per arrivare alla Direzione centrale ma, al contrario, partiva dalla Direzione centrale, e arrivava in periferia che, come uno specchio, rimandava poi, inalterate, le tesi al centro.

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