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Non c’è stata solo una Cortina di ferro ad est, che ha diviso in due l’Europa per cinquant’anni, ma una frontiera interna che ne ha condizionato tutte le politiche economiche e sociali. Ciascun Paese dell’occidente capitalista europeo, dalla Grecia alla Spagna, dal Portogallo alla Gran Bretagna, dalla Germania di Bonn all’Italia, ed alla Francia, ha dovuto trovare equilibri interni che consentissero la sopravvivenza del suo sistema politico.

L’esistenza di un pericolo comunista, di una Germania di Pankow sostenuta dall’URSS, imponeva alla Germania occidentale, quella di Bonn per intendersi, di fare ogni sforzo per rabbonire la classe operaia, facendola beneficiare di alti salari: ancora nel 1995, cinque anni dopo la riunificazione, in Germania il costo del lavoro industriale assorbiva ancora il 78% del prodotto.

Anche la teorizzazione della economia sociale di mercato, come la svolta socialdemocratica a Bad Godesberg, per non parlare del sistema di partecipazione dei sindacati alla gestione delle imprese, sono tutte evoluzioni forzate dal pericolo comunista. Al confronto, il costo del lavoro industriale era ben più basso sia in Italia sia in Francia, con il 68%, mentre era appena del 58% in Giappone. Più il pericolo comunista era lontano, più bassi erano i salari. Nel 2007, alla vigilia della crisi di Wall Street, in Germania questa percentuale era crollata al 65%: ben 13 punti percentuali in meno. In Italia, invece, era scesa di appena due punti, arrivando al 66%, mentre in Francia è rimasto inchiodato alla identica percentuale. Merito della moderazione salariale, frutto della concertazione tra Sindacati, Governo e Confindustria. L’impoverimento della classe lavoratrice era scontato.

Caduto il Muro, non c’è stato più bisogno di lasciare alti i salari agli operai: i tedeschi se ne sono accorti per primi. Non basta: l’unificazione tedesca e l’allargamento dell’Unione europea agli altri Paesi ex-comunisti ha accelerato la pressione sui salari. È paradigmatico quanto è accaduto in Germania a partire dal 1990, con l’unificazione dei Lander orientali più poveri, rispetto a quanto è accaduto in Italia, nei confronti delle aree meridionali: mentre la riunificazione tedesca è servita ad abbassare i salari degli operai, tant’è che ancora oggi non c’è la stessa paga oraria nei diversi lander, con differenze di alcuni euro in meno in quelli orientali ed anche a Berlino, in Italia l’avanzata del PCI negli anni sessanta si fondava sulla unità della classe operaia e su un contratto di lavoro unico a livello nazionale. Furono quindi abbattute le vecchie “gabbie salariali” che penalizzavano i salari meridionali, ma che corrispondevano ad una differente produttività; lo Stato, con le sue finanze, dovette intervenire per riequilibrare i costi della produzione con una serie di sgravi, contributivi e sugli investimenti.

Ne derivò l’assistenzialismo e la dipendenza dell’industria meridionale dalla politica: tutto fu sacrificato sull’altare dell’unità sindacale, della classe lavoratrice e della prospettiva del PCI di andare al Governo. Il comunismo si faceva strada così, e questi sono stati i suoi costi.
Ma anche l’anticomunismo ha fatto le sue vittime: basta pensare alla strategia di svuotamento delle fabbriche automobilistiche in Piemonte, per spostarle in aree rurali dell’Italia centro meridionale, per eliminare alla radice il conflitto esasperato al tempo delle Brigate rosse. Incapaci di gestire il conflitto con i sindacati, arroccati su una idea monarchico-sabauda della proprietà aziendale, in Italia si è smantellata l’intera industria dell’auto, mentre la Germania ha dovuto accettare la cogestione con i sindacati ma è riuscita a diventare un colosso produttivo e nell’export.

Il dualismo nel mercato del lavoro tedesco è arrivato ormai a livelli insostenibili: da una parte ci sono ancora milioni di vecchi operai-ricchi, con i contratti ereditati dall’era del “conflitto”, dall’altra milioni di giovani lavoratori-poveri che hanno un salario di 700 euro mensili, comandati di servizio ogni giorno in un posto diverso. La Germania si è arricchita, in questi anni, alle loro spalle.
Chi vuole, faccia lo stesso esercizio ricordando le battaglie di Margaret Thatcher per abbattere il potere dei laburisti e delle Trade Unions, dei minatori e degli operai: ha deindustrializzato definitivamente l’Inghilterra, trasformandola nel più grande polo finanziario dell’Europa. Ma, quando nel 2008 il sistema bancario è andato in crisi, l’intera economia inglese è crollata. E probabilmente non si riprenderà più: ci vorranno decenni, se basteranno, per recuperare le immense perdite accumulate dalle banche inglesi, nazionalizzate o sostenute dal debito pubblico.

Il Trattato di Maastricht, vent’anni fa, ha disegnato una nuova Europa, limitandosi a stendere un velo pietoso sulla fine del pericolo comunista. Lo stesso si fa ora con il Fiscal Compact, chiudendo gli occhi sulla insostenibilità di un’Europa mercantile, in cui alcuni Paesi si arricchiscono senza sosta a danno degli altri.
La crisi non è affatto superata: o si spezza l’euro, o si cambiano le regole dell’Unione. Cittadini, risparmiatori ed investitori prestino la massima attenzione.

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