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Non ho commentato sino ad ora il disegno di legge di stabilità perché quando ho avuto in mano il testo giunto al Senato ho provato un senso di sconcerto. Probabilmente, sentimenti analoghi sono stati avvertiti da numerosi senatori della Repubblica. Non lo proveranno i deputati perché a Montecitorio arriverà un articolato differente da quello che si sta analizzando, e modificando, a Palazzo Madama.

Lo sconcerto ha a che fare in primo luogo con la lunghezza e la complessità del documento. A mia memoria, la legge di stabilità deve indicare:

a) il livello massimo del ricorso al mercato finanziario e del saldo netto da finanziare in termini di competenza, per ciascun anno considerato nel bilancio pluriennale (ivi comprese le eventuali regolazioni contabili e debitorie pregresse) e le variazioni di aliquote, detrazioni e scaglioni, nonché le altre misure che incidono sulla determinazione del quantum della prestazione, in relazione alle diverse tipologie di imposte, tasse e contributi, con effetti a partire dal 1° gennaio dell’anno cui la legge di stabilità medesima si riferisce (in relazione alle sole imposte, essa deve anche indicare le correzioni conseguenti all’andamento dell’inflazione);

b) gli importi dei fondi speciali e le corrispondenti tabelle, vale a dire le somme, ripartite per ministeri, destinate alla copertura dei provvedimenti legislativi che si prevede saranno approvati nel corso degli esercizi finanziari compresi nel bilancio pluriennale, distintamente per la parte corrente e per la parte di conto capitale Una serie di tabelle in allegato alla legge di stabilità sono finalizzate ad indicare, per ciascuno degli anni considerati nel bilancio pluriennale: bI) gli importi relativi alle leggi di spesa di carattere permanente la cui quantificazione è rinviata alla legge di stabilità, aggregate per programma e per missione, con l’esclusione delle spese obbligatorie; bII) gli importi delle leggi di spesa in conto capitale a carattere pluriennale, aggregate per programma e per missione, con specifica ed analitica evidenziazione dei rifinanziamenti, delle riduzioni e delle rimodulazioni; bIII) gli importi delle riduzioni delle autorizzazioni legislative relative alla spesa di parte corrente, aggregate per programma e per missione; bIV) l’importo massimo da destinare ai contratti del pubblico impiego e alle modifiche del trattamento economico e normativo del personale dipendente dalle amministrazioni.

c) le norme che comportano aumenti di entrata o riduzioni di spesa, ad esclusione delle norme a carattere ordinamentale ovvero organizzatorio, facendo salva l’eccezione delle spese recate da norme eventualmente necessarie a garantire l’attuazione del Patto di stabilità interno, nonché a realizzare il Patto di convergenza disciplinato dalla legge sul federalismo fiscale n. 42 del 2009;

d) le norme recanti misure correttive degli effetti finanziari delle leggi la cui attuazione possa recare pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica;

e) le norme eventualmente necessarie a garantire l’attuazione del Patto di stabilità interno e del Patto di convergenza.

In breve, anche per evitare che il ddl, prima, e la legge, poi, diventino “un vestito d’Arlecchino” (per utilizzare una frase di Giuliano Amato) oppure un treno su cui tutti, tentato di salire, dovrebbe essere un articolato stringato, quasi all’osso, sui saldi e sulle misure da attuare per pervenirvi. Invece, questa volta, il “vestito d’Arlecchino” e la tradotta della finanza escono da Palazzo Chigi per andare dritti dritti in Parlamento.

Ad esempio, il solo titolo 2 (relativo alle misure per rilanciare lo sviluppo) contiene sette articoli e oltre 100 commi rivolti a micro-provvedimenti; ciò indurrà non solo ad un vero e proprio assalto al treno(per aggiungere altri micro-provvedimenti ora non inclusi) ma una vera e propria frammentazione legislativa con moltiplicazione degli obiettivi, inevitabile confusione tra finalità e strumenti, irrigidimento nell’impiego delle risorse con difficoltà di spostare fondi da progetti di spesa in ritardo ad altri che avanzano più rapidamente.

Appare, poi, mancare un coordinamento settoriale e territoriale degli interventi , almeno in linea, ad esempio, con le proposte di riforma istituzionale formulate dai “saggi”. Alcuni titoli del disegno di legge, poi, sono in contrasto con regole di base sul bilancio dello Stato, quale l’introduzione di “norme ordinamentali” ( titolo 3 del disegno di legge) nella legge di stabilità oppure con il principio di leale collaborazione tra livelli di governo (il titolo 4 del disegno di legge). Si potrebbe continuare.

È importante sottolineare che questi aspetti possono sembrare “tecnici” o “di lana caprina” ma è su questo scoglio che si incagliano i provvedimenti normativi e la loro effettiva capacità di incidere o meno.
Ciò non vuol dire che non si debba dare peso ai commenti della Banca d’Italia e della Corte dei Conti sull’ottimismo forse eccessivo del quadro macroeconomico. Se, però, ad ipotesi che si rivelassero troppo positive sull’andamento dei macro-aggregati si aggiungo norme farraginose, ci si mette in una camicia di forza da cui sarà difficile (in caso di esigenza) districarsi.

Cosa pensare? Da un lato, che al Governo sono mancate le collaborazioni tecniche necessarie per approntare il documento. Da un altro, che l’Esecutivo abbia voluto lasciare al Legislativo ampio margine di manovra per mostrare la propria creatività. Ma anche negli Usa, dove la seconda interpretazione è un po’ la prassi, eventi recenti mostrano che non è un metodo così buono.

Vi confesso perché questa Legge di stabilità mi ha sconcertato

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