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Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Riccardo Ruggeri, saggista, editore ed ex top manager del gruppo Fiat, apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

In questi anni molto ho scritto di Fiat, persino un libro («Parola di Marchionne»), mai da analista, sempre da investitore (obbligazionario), quelli che, con le Banche, hanno dato a Marchionne 17 miliardi, seppur a fronte di 28 di debiti. E lui ha corrisposto interessi alti, rimborsandole alla scadenza, non li ha spesi per prodotti, tecnologie, acquisizioni, ma li ha tenuti in cassa come assicurazione sulla vita, sua e nostra. In questi anni, per noi, Marchionne è stato, e tuttora è, un mito e lo sarà fino alla fusione con Chrysler, poi comincerà un altro film, altri attori, altre comparse. Finora la linea d’ombra di Obama ha protetto le obbligazioni Fiat, esse hanno goduto del «quid presidenziale», mai per noi investitori c’è stato un rischio, l’operazione Chrysler doveva riuscire, e così è stato. Quando Veba uscirà, tutto cambierà, i sindacati americani torneranno a fare il loro mestiere (non li riconosceremo più, rispetto alla moderazione di quand’erano azionisti), gli attuali modelli Chrysler, frutto degli investimenti Daimler, dovranno essere rinnovati e ci vorranno molti quattrini, permarrà il coma (vigile) di Fiat Auto. In altre parole, saranno le implacabili leggi del mercato a valutare le prospettive di Chrysler-Fiat.

Il rapporto di Marchionne con noi investitori è sempre stato limpido, professionale. Chi era del mestiere capì subito il non detto: per me, Fiat Auto, concettualmente, non era più un’azienda ma un “business case”, utile per il rilancio della Chrysler, e come tale sarebbe stata gestita. Marchionne fu sempre sincero con noi investitori, ci ha persino anticipato che nel 2015 uscirà di scena. Curioso invece l’establishment politico-industriale-culturale italiano. Anziché cercare di capire cosa significasse per il paese la strategia vera (quella sottesa) di Fiat Auto, si concentrò su temi sì importanti, come le relazioni industriali e la produttività, ma, nella fattispecie, marginali. E sull’uomo Marchionne, descrivendolo, a seconda dei casi, o come l’Uomo Nero (Boogeyman) della classe operaia o il Mandrake in golfino che avrebbe fatto tornare Fiat Auto ai fasti vallettiani. Un esempio. Da noi, a corrente alternata, si apre il dibattito sulla produttività, coinvolgendo a cascata tutti. Sia chiaro, la produttività è uno dei nodi irrisolti del Paese, dicono i miei amici americani «voi avete sostituito al classico hiring and firing (assumere-licenziare), il curioso hiring and retiring (assumere-pensionare)». Per Fiat Auto, nel momento storico che sta attraversando, ciò ha scarsa rilevanza pratica. Alcuni dati di massima. Il costo del lavoro operaio (diretti, indiretti, manutentori, ecc.) in Fiat rappresenta il 7% del costo. L’intero processo di fabbrica, dalla lastro ferratura al montaggio finale, per una Panda vale 11 ore, assumiamo un costo/operaio di 22 /ora, totale 242 /auto. In Polonia costerebbe 88 (8 /ora), in Germania 330 (30 /ora). Come si vede il costo del lavoro, è poco significativo. Costruire 200 mila Panda in Italia, di puro costo-lavoro, spendi 48 milioni di , in Polonia 18 (in crescita), la differenza di 30 milioni è irrilevante, trascurando gli altri ben noti fattori, qualità percepita compresa. È di questi giorni la notizia che Nissan e Hyundai, avendo i modelli giusti, hanno deciso, in piena crisi, di “delocalizzare” in Europa. Delocalizzare in Europa, capite? Anni di chiacchere strategiche al macero: la vittoria postuma della Thatcher (Uk come luogo di delocalizzazione dei giapponesi) si è compiuta.

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