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Il Parlamento sta cominciando ad esaminare le misure approvate dal Governo ai fini della promozione dell’occupazione. Sulle specifiche di queste misure è stato detto tutto nei giorni scorsi. Tuttavia, c’è stata poca attenzione sulla portata innovativa dei loro aspetti concettuali e sui limiti istituzionali che ne possono ridurre gli effetti concreti di salvaguardia di occupazione e di creazione di impieghi.

A mio avviso, l’aspetto concettualmente più importante è l’accento sul capitale umano. In questo senso si riallacciano alle analisi sul miracolo economico italiano e sulla sua fine di Charles Kindleberger, economista così noto da non richiedere presentazione, e di Ferenc Jánossy, genero di Lukacs e di formazione matematico-ingegneristica prima che economica. Scritti a pochi anni di distanza l’uno dell’altro, ma senza che i due autori avessero conoscenza l’uno dei lavori dell’altro, i libri di Kindlegerger e Janossy individuano nella qualità della forza lavoro – e quindi dell’istruzione e della formazione (ma anche delle politiche sanitarie, previdenziali e del mercato del lavoro attinenti allo sviluppo del capitale umano) – la determinante principale dei “miracoli economici”.

Kindleberger guarda esclusivamente all’Europa occidentale, e con attenzione particolare all’Italia. Janossy che lavorava in Ungheria e scriveva in magiaro guarda pure all’esperienza del “miracolo” (poco noto in Occidente) del proprio Paese centreuropeo. Mentre Kindleberger costruisce un modello esplicativo per comprendere come si sia stato innescato il “miracolo economico”, le analisi di Jánossy (per quanto basate su statistiche rudimentali [1], rispetto alla dotazione di cui disponeva Kindleberger) riguardano non solo come e perché i “miracoli economici” si sono avviati ma anche come e perché si sono affievoliti e spenti. La individua nella discrasia tra capitale umano (da considerarsi come “cambiamento strutturale delle conoscenze provocato dalla divisione del lavoro , non di una crescita generale derivante dalla sommatoria delle conoscenze individuali”), da un lato, e struttura produttiva ed occupazionale, dall’altro; in altri termini quando il capitale umano non è più in linea con le trasformazioni della struttura della produzione e del mercato del lavoro (sia per settori economici sia per categorie professionali) la spinta che ha dato vita al “miracolo” si esaurisce e si torna su una tendenza di lungo periodo fatta di adattamenti continui, per tentativi, errori e correzioni.

Quindi, l’indicazione di una politica economica basata su una politica attiva della formazione del capitale umano, e, di conseguenza, della valutazione economica dell’istruzione e della formazione, nonché su quella del funzionamento del mercato del lavoro, della politica della salute e del sistema previdenziale. A mio avviso, la differenza tra l’analisi di Kindleberger e quella di Jánossy derivava principalmente dal fatto che i due economisti operavano in contesti concettuali e socio-politici (oltre che economici) differenti. Per Kindleberger, che lavorava in un’economia di mercato, il mercato, con i suoi segnali, avrebbe agevolato i ri-aggiustamenti tra formazione e capitale umano, da un lato, e struttura produttiva ed occupazionale  (ed, indi, le regole e le prassi per la sua utilizzazione). Per Jánossy, che lavorava, invece, in un’economia “a socialismo reale”, invece, tali ri-aggiustamenti sarebbero dovuti essere il risultato della programmazione, dunque dell’azione politica.

L’interessante intuizione di Jánossy ha suscitato un certo dibattito tra economisti europei nella prima parte degli Anni Settanta ma è stata presto coperta da una fitta coltre di oblio. Allora, in materia di formazione ed utilizzazione di capitale umano si confrontavano due scuole, una imperniata sull’analisi costi benefici e l’altra sulla programmazione delle risorse umane e l’analisi costi efficacia – da farsi risalire rispettivamente ai lavori di Becker e Harbison citati in precedenza. Poca attenzione venne rivolta ai nessi tra formazione di capitale umano, da un lato, e suo utilizzazione e modernizzazione della struttura di produzione, dall’altro – la vera e propria architrave della riflessione di Jánossy sulla “fine dei miracoli economici”, tale da avere pertinenza anche in economie di mercato.

Un’ipotesi analoga a quella di Jánossy è stata formulata di recente, pur senza fare riferimento agli ormai ritenuti vecchi lavori dell’economista ungherese, dal Premio Nobel James Heckman della Università di Chicago e da Bas Jacobs della Università di Tilburg – due centri di ricerca strettamente incardinati nel pensiero economico neo-classico di economia di mercato: la loro analisi individua il rallentamento di lungo periodo dell’Ue nella carenze delle politiche della formazione e di utilizzazione di capitale umano, politiche che dovrebbero essere “re-inventate” anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione: “occorre riconoscere la complementarità dinamica della formazione di competenze”, “è necessario espandere l’investimento nei più giovani, dove si hanno maggiori rendimenti in termini sia di efficienza sia di distribuzione del reddito, rispetto a quello per la riqualificazione dei lavoratori anziani”, “tentare di rimediare più tardi nel ciclo vitale a carenze di competenze è spesso inefficace”. Heckman e Jacobs sottolineano (con toni analoghi a quelli di Janossy) come la formazione di capitale umano venga frustata se il resto delle politiche economiche ha l’effetto di abbassare i rendimenti dell’istruzione e della formazione: ad esempio, alti tassi marginali d’imposizione tributaria e ammortizzatori occupazionali e sociali molto generosi riducono i tassi di partecipazione alla forza lavoro e le ore effettivamente lavorate con la conseguenza di una utilizzazione del capitale umano più bassa dell’ottimale .

Tutto ciò può sembrare dotto e colto – quindi, più adatto per un saggio accademico che per un commento ad un provvedimento normativo. Tuttavia, se non si afferra il nucleo concettuale dei provvedimenti è difficile vedere perché il loro saldo fondamento teorico e le loro buone intenzioni rischiano di avere esiti molto modesti.

In primo luogo, il capitale umano non è unicamente materia di competenza del Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali. Occorre lavorare all’unisono , a livello centrale, con il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Ciò può non essere difficile. Lo sarà invece coordinarsi con le Regioni e con le Province che hanno competenza costituzionale in materia di formazione professionale e di organizzazione e gestione dei centri per l’impiego.

Anche ove ci si limitasse a quanto è nell’ambito di competenza del Ministero del Lavoro sarebbe essenziale mettere ordine tra Italia Lavoro SpA , nata per portare i ‘lavori socialmente utili’ verso l’impiego ma di cui ora pochi sembrano comprendere le finalità, e dell’Isfol, nato come ente di ricerca sulla falsariga del tedesco IZA ma ora dotato di 600 dipendenti (l’IZA ne ha 40) che producono una dozzina di rapporti l’anno (rispetto ai 6-8 la settimana dell’IZA).

Pur ove il Ministero del Lavoro mettesse ordine in casa propria e si riformasse la Costituzione per integrare le varie forme di preparazione del capitale umano, resterebbe un nodo di fondo ancora più difficile. Come indurre i potenziali beneficiari a mettere a frutto gli strumenti disponibili se i tassi di rendimento di istruzione e formazione continuano ad abbassarsi a ragione di una struttura salariale che non premia il capitale umano ma anzi lo incoraggia a cercare soddisfazioni all’estero?

[1] Janossy aveva accesso quasi esclusivamente ai lavori statistici della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite.

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