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Mi stupisce ogni volta vedere quanto astio suscitino le banche fra i cittadini. Dal 2007 in poi, quando è risultato chiaro a tutti il ruolo giocato dagli intermediari finanziari (categoria che comprende le banche, ma che non si esaurisce con le banche) nello scoppio della grande crisi, l’odio per la banche è cresciuto proporzionalmente alla sofferenza dei popoli.

I cittadini hanno scoperto che i banchieri (ma sarebbe più giusto dire gli operatori finanziari) hanno avvelenato l’economia con prodotti tossici, guadagnandoci pure bonus miliardari (in dollari) a fronte di disastri immani. Hanno saputo che questi soggetti sono usi se non direttamente alle truffe quantomeno alle furbizie. E che, non paghi di aver provocato la peggiore crisi dell’ultimo secolo, adesso lesinano pure all’economia il credito necessario per tornare a respirare.

Si può essere più cattive di così?

Ora però la cattiveria ha sempre bisogno di soggetti su cui esercitarsi. E l’effetto della cattiveria è tanto più devastante, quanto più questi soggetti – le vittime – hanno a che fare col cattivo. Spesso, ad esempio, mi è capitato di osservare che gli stessi che odiano le banche hanno comprato a rate (quindi grazie al credito) l’ultimo modello alla moda di smartphone (che magari non gli serviva davvero).

Inoltre la presunta cattiveria ha a che fare con le modalità con le quali vengono concepite le banche, con la mission che si affida loro. E qual’è questa mission? Semplice: fare più soldi possibile, come ogni bravo soggetto capitalistico. Le banche dovrebbero fare eccezione?

Le banche inoltre, proprio per come sono state concepite, hanno una peculiarità che le rende non solo cattive, ma pericolose: concorrono in maniera rilevante a produrre la liquidità per il tramite del credito. Devono far girare i soldi. E quanto più ne fanno girare, tanto più guadagnano. E per guadagnare sempre di più devono aumentare il rischio.

Tutto questo per dire che prima di odiare le banche, che magari se lo meritano pure ma sono solo uno strumento, dovremmo riflettere più a fondo sul “sistema”, come si diceva una volta, e su noi stessi.

Già: noi stessi. Siamo noi, sono i nostri desideri, a dare potere al sistema finanziario, che ci guadagna sopra. Se fossimo coerenti non dovremmo indignarci né per i profitti che ci lucra né lamentarci delle conseguenze.

Di questo magari parlerò un’altra volta. Per adesso è più interessante approfondire proprio la peculiarità dell’impresa bancaria, ossia la produzione di liquidità.

Cominciamo dall’inizio. Cos’è la liquidità?

E’ un sacco di cose, dipende dal soggetto a cui si riferisce. Per una banca centrale, ad esempio, gestire liquidità significa fornire mezzi di pagamento al sistema finanziario. Quindi gestire la base monetaria. Quando invece sentiamo dire che un investimento ha una buona liquidità, vuol dire che possiamo convertirlo in  moneta in fretta e con perdite minimali. E infatti in termini ragionieristici la liquidità corrisponde alla cassa del bilancio d’esercizio.

Facciamola semplice: la liquidità corrisponde, grossolanamente, al denaro, che infatti è considerato l’attività liquida perfetta.

Per le banche (anche quelle ombra) si parla di liquidità di finanziamento. Quindi la capacità di una banca di far fronte alle proprie passività. Che significa liquidare o stanziare le proprie posizioni nel momento in cui risulta essere necessario, così come definito dal Comitato di Basilea, che supervisiona la disciplina bancaria, nel 2008. In sostanza una banca ha tanta più liquidità quanto più facilmente può restituire i soldi che ha preso in prestito.

E qui sorge la questione.

I debiti di una banca corrispondono al passivo del bilancio bancario. Quindi innanzitutto ai depositi, alle obbligazioni, ai prestiti ottenuti dalla banca centrale, eccetera. Tali debiti sono le risorse che consentono alle banche di prestare ciò che hanno “comprato” dai propri creditori. I debiti delle banche, in pratica, vendono “venduti” a coloro che diventeranno i debitori. I debiti della banca diventano crediti per la banca stessa.

Senonché la trasformazione dei debiti in crediti avviene secondo un principio in virtù del quale le banche moltiplicano per un fattore X il proprio debito iniziale, trasformandolo in un ammontare di credito di gran superiore. Tale principio, per i depositi, si chiama ad esempio riserva frazionaria. Moltiplicando il credito creano di fatto moneta, ossia liquidità.

Ai debiti (liabilities), iscritti nel lato passivo del bilancio, corrispondono perciò i crediti (asset) iscritti nell’attivo. Le banche fanno i profitti lucrando sugli spread fra quanto devono pagare ai loro creditori e quanto devono incassano dai loro debitori.

Stando così le cose, il livello di profitto è direttamente proporzionale alla capacità della banca di aumentare il credito, quindi di prestare. Le risorse sulla base delle quali le banche prestano provengono, come ho già detto, dai prestiti che a loro volta le banche spuntano sul mercato, e dai mezzi propri, ossia dal capitale dell’impresa bancaria. Queste devono essere moltiplicate per il nostro fattore X per sapere a quanti crediti corrispondono questi debiti. E questa è una scelta squisitamente gestionale.

Qui entra in gioco un altro concetto che avrete sentito mille volte: la leva finanziaria, o leverage.

Come tutte le cose che sembrano difficili, il concetto di leverage è invece molto banale. Algebricamente si tratta di una frazione che vede al numeratore il totale dell’attivo bancario, quindi i crediti concessi, e al denominatore il passivo, quindi il capitale proprio più i debiti contratti. Più è alto il rapporto, più vuol dire che i debiti hanno generato crediti.

Ma poiché abbiamo visto che il livello di profitto di una banca è direttamente proporzionale alla capacità di aumentare i suoi crediti, ecco che viene fuori la controindicazione: una banca diventa profittevole quanto più aumenta il suo livello di leverage. Ma più aumenta il livello di profitto possibile, tanto devono aumentare i rischi che si devono correre per ottenerlo. Sicché le banche si trovano di fronte al dilemma fra guadagnare poco (bassi rischi) o creare disastri sistemici (altri rischi).

Vedete, non sono cattive: le disegnano così.

Per comprendere quanto questo dilemma sia concreto, vale la pena riportare qui le conclusioni di un paper recente del Nber che, senti senti, si intitola “Why high leverage is optimal for banks”, ossia “Perché un alto livello di leverage è ottimale per le banche”.

Gli autori, Harry DeAngelo e René M. Stulz, esordiscono ricordando proprio come la liquidità sia “un ruolo centrale delle banche” e che proprio tale attività rivesta un “importante valore sociale” (il famoso acquisto dello smartophone a credito?). Inoltre, dicono, se si applicasse il principio di una bassa leva alle banche, finirebbero fuori mercato, visto che “fissare limiti nel livello di leverage impedirebbe loro di competere con il sistema delle banche ombra, che non è regolamentato”. Come ciliegina sulla torta, dopo aver notato che il livello di leverage è aumentato costantemente negli ultimi 150 anni, i due economisti rilevano che “non necessariamente un alto livello di leverage causa rischi sistemici”.

Quest’ultima è un po’ dura da buttare giù, malgrado numeri e formulette. Non tanto da me, che sono un dilettante, ma sempre dal solito comitato di Basilea, che non deve aver letto il paper del Nber.

Proprio in queste ore, infatti, il Comitato di Basilea ha rilasciato una proposta mirata proprio a regolamentare il livello internazionale del leverage bancario, rendendo persino obbligatorio da parte delle banche la pubblicazione, dal 2015 in poi, dei loro leverage ratio, uno dei segreti meglio custoditi degli istituti bancari. E proprio all’introduzione il Comitato scrive che “una caratteristica di fondo della crisi finanziaria è stata l’accumulo di eccessivo leverage nel sistema bancario”.

Chi la spunterà? I “liberalizzatori”, che vogliono le banche libere di prestare a rotta di collo, o i “regolatori”, che prediligono la prudenza.

La risposta, come diceva un celebra comico, è dentro di voi.

Ma è sbagliata.

Le banche non sono cattive: le disegnano così

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