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Caro direttore,

il ministro dello Sviluppo economico incassa i fischi dalla platea di Confcommercio. Una sonora contestazione dei commercianti, peraltro senza che Flavio Zanonato abbia esplicitamente confermato il previsto aumento dell’Iva.

Commette un’ingenuità che non è consentita a un esponente del governo in un momento in cui gli animi sono, giustamente, molto agitati e preoccupati. Poi, in un maldestro tentativo di recupero, sbaglia tentando di giustificare la sortita nel ricordare che il provvedimento era stato programmato dal precedente governo Monti.

Guarda nello specchietto retrovisore, il ministro, non capendo che gli imprenditori chiedono di essere illuminati sulla strada che l’attuale governo intende percorrere, auspicando che le buche rappresentate dalle imposte e dalla burocrazia siano prontamente sistemate, ovvero vengano eliminati balzelli e laccioli e, soprattutto, non ne siano creati di nuovi.

Vedremo sull’Iva cosa deciderà il governo nei prossimi giorni, ma è significativo notare la discrasia dell’intervento del ministro, peraltro comune ad altre recenti infelice sortite di un sottosegretario alla cultura e al turismo sulla, a suo dire, scarsa qualità della cucina italiana sollevando, giustamente a mio parere, dure prese di posizione da parte dei diretti interessati. Per non citare poi quelle del ministro Cécile Kyenge sullo ius soli e le proteste sollevate a Milano per un suo presunto uso disinvolto della scorta ed il mancato rispetto dei sensi unici.

Quindi, si potrebbe pensare che una siffatta mancanza di coordinamento provochi uscite ed apparizioni pubbliche quantomeno ingenue da parte di alcuni esponenti del governo, e che la stessa  abbia origine da una sostanziale confusione che aleggia su palazzo Chigi, quella che il Financial Times definisce come una sorta di letargo prolungato del premier Letta, esortandolo ad agire, a fare.

Tuttavia, Letta non è certamente uno sprovveduto, tantomeno un incapace o un inetto privo di esperienza politica. Se da una parte alcuni esponenti del suo governo sono, diciamo, vittime dell’inesperienza che li porta a commettere ingenuità o errori come quelli citati, dall’altra è il modello istituzionale che ostacola una decisa quanto rapida velocità d’azione. Quell’apparente mancanza di cogliere a fondo l’importanza del “fattore tempo” nell’azione di governo altro non è che il risultato dei vincoli che si creano dall’influenza esercitata dai partiti, ovvero dai reciproci out out, a volte veri e propri steccati e veti incrociati che derivano dalla necessità di mantenere e difendere il loro consenso e bacino elettorale.

Una democrazia parlamentare diventa quindi un costo in termini di tempi decisionali e conseguenti azioni dirette sul sistema produttivo, finanziario e sociale che non ci possiamo più permettere perché, avvitandosi su se stessa anche a  causa dell’eterogeneità e della volubilità degli italiani, oltre che dalla mediazione di partiti politici logori e in alcuni casi finiti, di fatto è palesemente inadeguata ai dinamici tempi di reazione richiesti dalla nuova geografia politica ed economica mondiale.

In conclusione: o si cambiano gli italiani, tutti, oppure si riforma l’assetto istituzionale, intervenendo quindi sulla causa e non sull’effetto, conferendo all’esecutivo, eletto direttamente dal popolo, il concreto potere di governare senza dover continuamente sottostare agli umori della gente e del palazzo. Il modello semipresidenzialista risponde a questa improcrastinabile esigenza responsabilizzando nel contempo anche noi cittadini nel metterci di fronte alle nostre scelte.

Con buona pace dei timorosi preoccupati degli esempi sudamericani e dei paladini dell’immutabilità della più bella del mondo contrari a questa riforma, è bene ricordare che i regimi autoritari e dittatoriali si formano laddove c’è assenza di una adeguata azione di governo e non viceversa.

Perché non può esserci una scossa all'economia

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