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Rivolgendosi trionfante alla nazione, il presidente azero Ilham Aliyev ha annunciato mercoledì 20 settembre che le autorità separatiste pro-armene avevano optato per la resa dopo sole 48 ore di combattimento, riportando così la regione del Nagorno-Karabakh sotto il totale controllo dell’Azerbaijan. “Il Karabakh è Azerbaijan” sono le enfatiche parole con cui Aliyev ha concluso il suo intervento, alzando il pugno in segno di vittoria.

Finisce così l’esperienza indipendentista della regione caucasica, internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaijan ma abitata principalmente da individui di etnia armena; esperienza iniziata nel 1988, in concomitanza con l’inizio del processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica, e causa di una prima guerra tra Armenia e Azerbaijan tra il 1992 e il 1994, con la vittoria della prima che ha garantito l’indipendenza de facto del Nagorno Karabakh. Un altro conflitto, scoppiato nel 2020, aveva permesso a Baku di riprendere il controllo di buona parte della regione, lasciando in mano ai separatisti pro-armeni soltanto una piccola porzione di territorio (che includeva la capitale Stepanakert), collegata all’Armenia soltanto da una piccola striscia di territorio nota come “corridoio di Lachin”, che i militari di Baku hanno a più riprese bloccato negli ultimi mesi.

Lo scorso lunedì 18 settembre le truppe azere hanno lanciato un nuovo attacco contro le forze separatiste nella regione, giustificandolo come un’operazione anti-terrorismo. Una vera e propria blitzkrieg, che ha costretto gli avversari alla resa dopo soli due giorni di scontri.

Il governo armeno ha deciso di non intervenire a sostegno degli indipendentisti dell’Artsakh (nome armeno della regione), decisione che ha portato al verificarsi di massicce manifestazioni ancora in corso nel Paese, con i manifestanti che chiedono le dimissioni (e anche l’arresto) del primo ministro Nikol Pashinyan, colpevole di non aver voluto sostenere Stepanakert. In parte nella speranza di un intervento delle forze di peacekeeping dispiegate nella regione da Mosca (suo storico protettore) in seguito alla fine degli scontri del 2020, intervento che però non si è manifestato, forse anche per il deterioramento nelle relazioni in corso tra Armenia e Russia. In parte per una paura dell’estendersi del conflitto.

Oltre al Nagorno-Karabakh vi è un’altra questione territoriale molto delicata che coinvolge Baku e Yerevan. L’Azerbaijan controlla infatti l’exclave territoriale di Nanchikvan, che l’Armenia separa dal resto del territorio azero. Negli ultimi anni Aliyev ha più volte dichiarato la sua intenzione di ricollegare questa regione con l’heartland dell’Azerbaijan. Il governo di Pashinyan, consapevole dell’impreparazione militare armena ad un simile confronto bellico, ha preferito non farsi coinvolgere, per il timore che un suo intervento avrebbe fornito a Baku il casus belli per avanzare fin dentro i confini armeni.

Rappresentanti dell’Azerbaijan e delle autorità separatiste del Nagorno-Karabakh, scortate dai peacekeepers russi, si sono incontrate giovedì nella cittadina azera di Yevlakh per discutere del futuro della popolazione armena nella regione ora sotto controllo di Baku; tuttavia, nessun risultato concreto è stato raggiunto durante le discussioni.

Una questione urgente, anche alla luce del rischio di emergenza umanitaria nella regione. Nonostante i proclami del presidente azero sul voler creare “un paradiso per gli armeni” nel territorio occupato, si prevede che molti abitanti del posto (le stime parlano di decine di migliaia) lasceranno le proprie case e cercheranno rifugio in Armenia, per la paura di violenze da parte dei militari azeri. Un funzionario separatista ha dichiarato mercoledì che più di 10.000 persone sono state evacuate dalle comunità armene del Nagorno-Karabakh verso altri insediamenti nella regione “dove è possibile garantire una relativa sicurezza”.

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