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In passato rappresentante diplomatico per il governo di Tokyo presso Washington, Pechino, Baghdad e Il Cairo. Ad oggi visiting professor presso la Ritsumeikan University e presidente del think-thank privato Foreign Policy Institute. Kuny Miyake è un personaggio poliedrico, che ha vissuto e studiato la politica estera del Giappone e del mondo. A margine di una sua conferenza svoltasi presso l’università John Cabot, in occasione dell’inaugurazione del nuovo Master’s degree in International Affairs diretto dal professor Michael DriessenFormiche.net ha avuto la possibilità di porgli qualche domanda.

Professor Miyake, come possiamo definire il concetto, lei molto caro, di “entanglement”?

In tempo di pace, la stabilità permette di prevedere con successo l’esito di molte dinamiche internazionali. La stabilità facilita il business, e le dinamiche sono lineari. In questa situazione prevale la logica “economica”. Ma quando si verificano degli imprevisti, le persone smettono di seguire la logica “economica” e passano a quella “strategica” perché subentra l’istinto di sopravvivenza. Non si tratta più di soldi: in ballo ci sono la tua vita, la sicurezza del tuo paese, la tua libertà. Prevalgono dunque valori non economici che rendono il processo di decision-making strategico più complesso, e che di conseguenza rendono più facile anche commettere degli errori. L’incontro tra leader di differenti Paesi in tempo di pace difficilmente può portare alla nascita di un entanglement, ma se lo stesso incontro avviene in un contesto più difficile, caratterizzato da imprevisti, emergenze o conflitti, allora si ha una probabilità più alta che essi commettano errori. Dando così inizio ad un processo di entanglement. E una volta che tale processo è avviato, esso risulta molto difficile da correggere, almeno fino medio periodo (5-10 anni ndr). Gli errori commessi in questa situazione danno adito ad errori successivi, impedendo che l’entanglement si interrompa. Ecco come si arriva alla guerra. Ed ecco perché è necessario tenere sempre in considerazione il corrente livello di entanglement, al fine di evitare il verificarsi di conflitti futuri.

Ritiene che sia appropriato utilizzare il concetto di entanglement per analizzare correttamente le odierne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese?

Assolutamente si. Ricordiamoci come nel secolo scorso, il mio Paese è arrivato alla guerra con gli Stati Uniti come conseguenza dell’invasione della Manciuria prima, e poi della Cina. Dopo la guerra, nel 1945, Tokyo e Washington sono divenuti alleati, e gli interessi nei confronti della Cina sono diventati interessi condivisi, non competitivi. Tra gli anni ’80 e gli anni ’90 del novecento, eravamo convinti che investire in Cina, accrescendone di conseguenza la ricchezza, avrebbe portato all’emergere di una società civile, e quindi alla democratizzazione del Paese. Ci siamo sbagliati. Abbiamo investito in Cina e l’abbiamo resa più ricca, ma la quasi totalità di questa ricchezza è stata impiegata per potenziare la sicurezza domestica e la difesa nazionale. Per questo motivo, nella Repubblica Popolare non si è sviluppata una società civile come quella che abbiamo noi. Abbiamo anche pensato, o sperato, che la Cina seguisse un percorso di sviluppo alternativo al nostro, ma così non è stato. Fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti erano guidati da una leadership con atteggiamenti molto amichevoli nei confronti della Repubblica Popolare; adesso questa leadership non c’è più, proprio perché non si è verificato quello che speravamo avvenisse. Oggi vediamo più punti di scontro che di incontro tra Washington e Pechino. Prima della Seconda Guerra Mondiale, erano Cina e Stati Uniti a condividere l’interesse di contenere il Giappone. Adesso la situazione si è capovolta. Rispetto ad allora il sistema è differente, così come lo sono gli obiettivi. Purtroppo, in questo contesto specifico è molto probabile l’entanglement perduri, e anzi peggiori negli anni a venire.

Lei vede nella crescente cooperazione bilaterale tra Cina, Russia, Corea del Nord e Iran la nascita di un coerente blocco revisionista?

 Vedo la nascita di un’alleanza tra i più deboli. Non importa quanti paesi essa mette assieme, finché solo paesi deboli ve ne fanno parte, non c’è una vera “produzione di potere”. Oggi molti credono che gli Stati Uniti siano una potenza in declino. Nonostante ci siano effettivamente alcuni “terribili personaggi” che vogliono distruggere la grande tradizione democratica americana, ricordiamoci che gli Stati Uniti sono composti da “solo” 300 milioni di persone che vivono nel larghissimo continente nordamericano, ricchissimo di risorse minerali ed energetiche; dall’altra parte del Pacifico abbiamo un paese abitato da 1.5 miliardi di persone che vivono in un territorio perlopiù desertico e montagnoso, con un terreno coltivabile limitato e privo di risorse energetiche. Dove oltretutto vige l’autocrazia. Mentre negli Stati Uniti ogni anno arrivano milioni di ambiziosi migranti, che contribuiscono a mantenere vivo un sistema di mercato competitivo che ha portato alla nascita di Facebook, Google, Apple. Cosa che non abbiamo né noi né voi europei, né tantomeno la Cina. Questo perché, appunto, gli Stati Uniti sono un paese ancora ricco di risorse materiali e con l’immigrazione che mantiene la sua ricchezza umana. Quindi quale sarà tra Russia, Cina e Stati Uniti il paese che nel lungo periodo riuscirà a prevalere? Penso che rispondere a questa domanda sia abbastanza semplice.

Lo scoppio del conflitto in Ucraina rappresenta senza dubbio alcuno l’evento che più ha impattato nel sistema internazionale negli ultimi anni. Quali sono state le sue maggiori conseguenze?

In primo luogo, direi i danni riportati nel teatro europeo fino ad ora, e quelli che seguiranno. Anche perché, mi dispiace dirlo, questo conflitto durerà ancora a lungo. Sarà molto difficile arrivare a una conclusione. In questo momento gli Ucraini odiano i Russi, li considerano come invasori. Putin stesso, dando il via a questa guerra, sta contribuendo a creare la Nazione Ucraina, fornendo per la prima volta al suo popolo un senso di identità così forte, anche perché vissuto sulla propria pelle. Anche questa è una conseguenza da non sottovalutare. In ogni caso, il conflitto sembra destinato a perdurare, e gli Europei devono riuscire a dare il massimo nel processo di stabilizzazione, al fine di evitare uno spill-over delle violenze al di fuori dei confini ucraini. Sarebbe un disastro per l’Europa, ma anche per noi e per gli americani. Siamo tutti sulla stessa barca. Iniziare una guerra è piuttosto facile, porle un termine è tragicamente difficile.

Come vede il rischio che l’Ucraina diventi una Corea europea?

Sicuramente non un rischio immediato. Per raggiungere un armistizio, o anche un cessate il fuoco o qualsivoglia forma di sospensione delle ostilità, almeno una delle parti coinvolte nel conflitto deve sentirsi sulla difensiva, deve pensare che c’è il rischio concreto di uscire sconfitti dal confronto: in questo caso, ci sono dei margini per negoziare. Se invece entrambe le parti pensano di poter vincere, come in questo momento sia Kyiv che Mosca credono e sperano di fare, allora questi margini spariscono. Mentre il massacro prosegue.

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