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A volte gli atti rivoluzionari che possono cambiare il destino della politica e del suo modo d’essere nella società sono rappresentati da gesti apparentemente normali e del tutto scontati se non addirittura banali. E, di conseguenza, antichi se non vecchi. Mi riferisco, nello specifico, alla celebrazione dei congressi dei partiti. Attenzione, non mi riferisco a quei congressi dove vige la regola non scritta della “democrazia dell’applauso”, come la definiva con precisione molti anni fa Norberto Bobbio.

Ovvero, congressi dove il capo si può solo applaudire e venerare salvo l’emarginazione prima e la sostanziale espulsione poi dal partito stesso di chi osa dissentire o contestare il verbo del capo. Certo, non è affatto facile invertire la rotta e tornare a partiti autenticamente democratici e realisticamente contendibili al proprio interno; a partiti dove c’è rispetto e tolleranza per la minoranze e, in ultimo, ad una selezione democratica e trasparente delle varie classi dirigenti a livello nazionale e a livello locale. Tasselli, questi, che appaiono quasi lunari da raggiungere in un contesto dove prevalgono altri disvalori e altre prassi.

E cioè, dal criterio della fedeltà assoluta al capo partito al sostanziale annullamento della dialettica politica interna, dalla presenza di sole correnti di potere – come capita prevalentemente nel Pd – alla cronica assenza di un “pensiero lungo” che anima il confronto e il dibattito; dalla nomina centralistica dei vari dirigenti al cambio repentino della strategia del partito perché sempre in balia dell’umore del capo. Il tutto, come ovvio, sacrificato sull’altare dei partiti personali, o del capo, o proprietari, o familisti. E, di conseguenza, il dibattito politico non può che essere compresso e drasticamente limitato.

Ora, se interpellati, i vari capi partito giurano che i prossimi congressi – democratici e partecipativi – scioglieranno tutte le contraddizioni che hanno caratterizzato in questi ultimi anni i vari soggetti politici e assisteremo, quindi, ad assise democratiche, trasparenti e caratterizzate da metodi ispirati alla meritocrazia, al consenso e alle regole. Presumibilmente, regole democratiche e realmente partecipative. Come ovvio, si tratta di promesse che sino ad oggi non hanno avuto una significativa traduzione nella prassi concreta della vita dei vari partiti nel nostro paese. Ecco perché, in assenza di segnali concreti e tangibili, forse è arrivato il momento che, al di là delle dichiarazioni pubbliche e solenni che vengono quotidianamente pronunciate, è appena sufficiente copiare – sì, copiare – quello che nella prima repubblica capitava nei congressi dei partiti democratici.

Cioè in quei partiti, la Dc soprattutto, dove la regola democratica era il principio aureo che disciplinava e caratterizzava la celebrazione dei congressi interni. E queste regole democratiche caratterizzavano la vita interna di quasi tutti i partiti, Pci escluso, perché in quel grande partito vigeva quel “centralismo democratico” che era la perfetta antitesi rispetto ad una procedura e ad un metodo autenticamente democratici. Per questi semplici motivi, e al di là dei solenni pronunciamenti, si tratta banalmente di scopiazzare ciò che capitava nella Dc e in altri partiti per restituire i soggetti politici contemporanei – ormai diventati prevalentemente cartelli elettorali – alla democrazia e ad una cultura fatta di trasparenza e di collegialità. Al punto in cui siamo, però, conteranno solo i fatti, i comportamenti e gli atteggiamenti concreti. Tutto il resto appartiene solo alla propaganda, alla demagogia e, soprattutto, alla ipocrisia di chi dice una cosa e ne fa esattamente un’altra.

Un atto rivoluzionario. Fare i congressi democratici nei partiti

Perché, in assenza di segnali concreti e tangibili, forse è arrivato il momento di quello che nella prima repubblica capitava nei congressi. Il commento di Giorgio Merlo

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