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Discutendo di riforme, di riformismo e di riformismi capita di “incontrare” chi parte dalle origini del termine evidenziandone anche il significato latente oltre che manifesto. Un significato che rimanda a tante immagini: a dare forma, a dare una nuova forma, a cambiare forma. E si pensa alle cose che ci piacerebbe vedere con occhi diversi perché vissute in maniera diversa.

Il sogno di uno Stato differente vedendo le esperienze dei “vicini” o “lontani” di casa per non dire semplicisticamente che ogni mondo è Paese. Su questo è intervenuto Pete Kercher , poliedrico ed internazionale osservatore culturale,  in un piacevole incontro grazie alla rete che accorcia le distanze.

Sono sempre affascinato dalla disquisizione dell’etimo della parola riforma. Ti racconto le mie impressioni al riguardo, da anglofono residente in Italia da una vita.

Crescendo in GB, mi viene spontaneo collegare il concetto di “reform” a modifiche di importanza strategica all’impianto legislativo. L’esempio lampante per ogni britannico è e resta il Great Reform Act del 1832, che abolisce le Rotten Borough (circoscrizioni parlamentari con pochi o pochissimi abitanti), sostituendoli con le circoscrizioni più moderne. L’effetto è stato dirompente, abolendo la possibilità per pochi ricchi di acquistare un seggio alla Camera e costringendo tutti all’elezione. Questa per me è Reform.
Poi arrivo in Italia e sento parlare di “riforma” ad ogni angolo della strada. Non ci vuole molto per capire che la “riforma” italiana non è la “reform” inglese, ma una modestissima modifica, spesso in peggio, di un impianto legislativo decrepito e disfunzionale, preparata da un parlamento incredibilmente privo di coloro che in GB si chiamano “legal draughtsmen”, ossia professionisti specializzati nella stesura delle proposte di legge. In Italia invece, si lascia tutto ai dilettanti dei partiti politici e persino ai lobbisti, che regolarmente causano più guai di quanti trovano.
A questo punto, allargando il discorso dall’etimo al contenuto, mi preoccupa non poco il concetto di applicare questo misero procedimento di “riforma” alla costituzione, ossia all’architettura del nostro convivere in società in Italia. Se fosse una “reform”, se ne potrebbe parlare: è palese che la costituzione italiana, checché se ne dica in sede di auto convincimento che non tutto è perso, non è per niente “la più bella del mondo”: è disfunzionale qualsiasi strumento che prevede una perfetta equivalenza tra le due camere e, tra l’altro, che ha permesso l’ossificazione dell’oligarchia che attualmente sta distruggendo il poco senso rimastoci di democrazia e partecipazione in un leale processo di condivisione e compromesso. Ma non merita di essere il soggetto di una “riforma” all’italiana, che si sa già in anticipo sarà ancora una volta la classica “botched job” (un lavoro raffazzonato, fatto con i piedi), come il Porcellum.

In una democrazia che si rispetti, con un Parlamento che si rispetti, le riforme (quelle vere, non intendo le modifiche alla spicciola di leggi e leggine cui in Italia si ha il vezzo di dare il nome onorevole di “riforma”) si fanno in Parlamento. Per una riforma di primaria importanza, del sistema che governa il nostro convivere nella moderna e complessa società contemporanea, in molti paesi il Parlamento (non il governo) crea una Commissione parlamentare che studi la questione, chiamando anche a testimoniare una grande varietà di esperti, “saggi” e rappresentanti della società civile. Ma un Parlamento che si rispetti in una democrazia che si rispetti non delega lo studio della questione totalmente a quei saggi, rinunciando alla propria responsabilità nei confronti degli elettori. Ad ognuno il suo ruolo: al Parlamento il ruolo di studiare, prendere iniziative e legiferare; ai saggi il ruolo di testimoniare e portare la varietà delle esperienze.
Se il Parlamento (o il governo per esso) sente l’esigenza di delegare il suo ruolo di iniziativa a saggi esterni, significa che non ha al suo interno gli esperti capaci di formulare proposte per le riforme necessarie a questo paese: significa che il Parlamento è composto da incapaci e incompetenti in materia di legiferazione e di governo.


L’Italia ha bisogno di una reform vera, non di altre patetiche riformucce e modifiche per portare l’acqua al mulino dei soliti noti. Ma è prigioniera di se stessa.

 Se l’Italia è prigioniera di se stessa, la prima reform non è forse quella di liberarla o di liberarsi?

 

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