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La capitale italiana è al centro della diplomazia internazionale non solo per la visita del vicepresidente statunitense, J.D. Vance, dopo il viaggio a Washington della premier Giorgia Meloni. Ospitando, sebbene presso l’ambasciata romana del Sultanato dell’Oman e spostati in Italia anche per ragioni logistiche, la seconda tornata di colloqui riservati tra Stati Uniti e Iran sul dossier nucleare, Roma guadagna uno spazio nella costruzione di un quadro negoziale solido per trovare una via di co-gestione del programma atomico iraniano. La mediazione omanita, affidata al ministro degli Esteri Badr al-Busaidi, si conferma centrale dopo l’avvio dei negoziati a Muscat. A guidare le delegazioni: Steve Witkoff per gli Stati Uniti, e Abbas Araghchi per Teheran. Per tutti e tre i protagonisti era previsto un meeting con il ministro degli Esteri Antonio Tajani, ma al momento della stesura di questo articolo non ci sono state informazioni ufficiali.

Al centro delle trattative, la questione dell’arricchimento dell’uranio, il futuro delle sanzioni e – più in generale – il timore che il programma nucleare iraniano possa evolvere in una capacità militare. Witkoff ribadisce che la linea rossa per Washington resta la “militarizzazione” del programma, pur lasciando margini per un uso civile sotto rigidi controlli internazionali. Ma dietro i tecnicismi, lo scenario è reso complesso da dinamiche geopolitiche e fragilità interne.

L’incontro romano aveva un obiettivo che è stato apparentemente raggiunto: definire come gli incontri negoziali sarebbero proceduti, ossia consolidare i primi due contatti in un percorso. I dettagli seguiranno, i risultati sono attesi da tutte le parti, spiegano le fonti informate sul faccia a faccia. “Il secondo round di colloqui di oggi è durato quattro ore, ed è stato proficuo”, dice una delle fonti. “Entrambe le parti hanno concordato di proseguire i colloqui ancora per qualche giorno a livello operativo, dopodiché sabato prossimo si terrà un altro round di colloqui ad alto livello” — niente in più sul luogo.

Il ministero degli Esteri dell’Oman ha rilasciato una dichiarazione dopo la conclusione dei colloqui sottolineando che le due parti “hanno concordato di entrare nella fase successiva” dei negoziati con l’obiettivo di siglare “un accordo equo, duraturo e vincolante che garantisca all’Iran di essere completamente libero da armi nucleari e sanzioni e di mantenere la sua capacità di sviluppare energia nucleare pacifica”.

Le tensioni interne all’Iran

Come ha osservato Sara Bazoobandi del Giga Institute, “l’Iran affronta una situazione interna delicata”, che potrebbe riflettersi sui talks: “Oltre a una crisi economica profonda, dal 2022 si è allargata la frattura tra autorità e popolazione, soprattutto dopo l’ondata di proteste”. Tensioni anche all’interno dell’establishment: lo scontro tra conservatori e realisti rischia di compromettere la sostenibilità politica di qualsiasi accordo.

Bazoobandi ha anche sottolineato una differenza sostanziale rispetto al Jcpoa del 2015: “Allora c’era un consenso multilaterale garantito dal formato P5+1. Oggi questo quadro è assente, e le potenze regionali, in particolare Israele e i Paesi del Golfo, continuano a guardare con sospetto a ogni apertura verso Teheran”, ha spiegato durante il panel “Read for a deal?” organizzato dall’Ispi.

Ambiguità strategiche americane

Da parte statunitense, la linea non appare univoca, frutto del noto approccio ambiguo trumpiano, che mette sullo stesso piano opportunità diplomatico-economiche e pressione anche di carattere militare. Come ha spiegato Richard Nephew della Columbia University, “mentre le precedenti amministrazioni avevano un obiettivo definito, contenere il programma nucleare iraniano, oggi l’amministrazione Trump mostra forti divisioni interne. C’è chi invoca la totale eliminazione del programma e chi ritiene tale posizione eccessiva”. Questo disallineamento rende più difficile costruire una strategia coerente, ma anche maggiore elasticità negoziale.

Nephew ha aggiunto che il vero nodo resta la trasparenza: “Il programma iraniano è nato nella segretezza, e anche un ritorno al Jcpoa non restituirebbe più la ‘finestra di un anno’ per reagire a un’eventuale corsa all’arma nucleare, a causa dei progressi tecnologici fatti da Teheran”.

Tra deterrenza regionale e calcolo politico

L’aspetto interno si intreccia con considerazioni di sicurezza. Ali Vaez dell’International Crisis Group ha evidenziato come le forze moderate in Iran stiano guadagnando terreno, spinte dal timore di nuovi disordini sociali e dalla percezione che la deterrenza regionale dell’Iran – in Libano, Siria e nei Territori palestinesi – si sia indebolita. Tuttavia, Teheran conserva capacità sia difensive che offensive, in particolare in Iraq e Yemen.

Vaez ha anche evidenziato le divergenze regionali: se molti Paesi arabi sostengono i colloqui per evitare escalation, Israele resta fermamente contrario. “Non è questione di arricchimento dell’uranio, ma di arricchimento dell’Iran,” ha detto. Per Israele, ogni accordo che conferisca benefici concreti a un regime percepito come ostile è inaccettabile.

Cosa aspettarsi dopo Roma?

Nonostante le distanze e soprattutto il clima di sfiducia che pesa da anni, la volontà di proseguire il dialogo sembra condivisa. L’Iran ha interesse a ridurre la pressione economica e politica interna, mentre gli Stati Uniti cercano di evitare un’escalation militare in Medio Oriente, anche nell’ottica di proseguire le relazioni di normalizzazione lanciate dall’Arabia Saudita (che in questi giorni ha inviato a Teheran uno dei figli di Re Salman incontrare l’ayatollah Ali Khamenei, portando una lettera speciale dal regno).

In un contesto così fragile, anche un’intesa parziale potrebbe rappresentare un passo importante verso la stabilizzazione regionale. Anche perché Witkoff ha incontrato a Parigi il ministro degli Affari strategici israeliano, Ron Dermer, segnalato anch’egli a Roma oggi ma non ufficialmente per ora, e il capo del Mossad, David Barnea — con Israele del tutto contrario ad accordi, temendo che le eventuali concessioni del presidente Trump possano finire per facilitare secondariamente l’Iran, che per lo Stato ebraico è e resterà nemico.

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