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Molto di frequente nel discorso pubblico viene riportata una citazione attribuita al grande stratega tedesco Carl von Clausewitz, autore di quel Vom Kriege pubblicato nel 1832 che ancora oggi viene considerato (giustamente) come un caposaldo del dibattito strategico. La citazione in questione è “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. A questa citazione manca però una parte, spesso dimenticata, che ne esplica appieno il significato: “La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. A cui si potrebbe aggiungere un corollario: “E viceversa”.

Nelle scorse ore il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin si è reso disponibile per un’intervista condotta dal giornalista Pavel Aleksandrovich Zarubin. Nelle risposte date alle domande postegli dallo stesso Zarubin emerge in modo alquanto chiaro il fatto che Putin veda nella retorica politica una potente arma da impiegare per perseguire i suoi obiettivi politici, tanto quanto i T-90 e gli Shahed-136 impiegati al fronte. Guardando alle parole del presidente russo si possono notare diversi filoni e sottotracce, espresse indirettamente con lo scopo di influenzare gli equilibri politici (e, di conseguenza, anche quelli militari) internazionali. E tra tutti questi filoni, ce n’è uno che racchiude tutti gli altri, ovvero quello del “Divide et Impera”.

Con le sue parole, Putin cerca di allargare ulteriormente le spaccature esistenti nel fronte avversario. Partendo dalla dimensione transatlantica. Non a caso l’inquilino del Cremlino non solo impiega parole positive nei confronti del suo omologo statunitense Donald Trump, ma lo invita anche a cooperare (scegliendo, di nuovo non a caso, di riferirsi agli americani utilizzando il termine “partner”), su uno dei temi che in questo momento risultano essere prioritari nell’agenda della Casa Bianca, cioè quello delle terre rare. Enfatizzando come questa disponibilità a collaborare sia valida anche in relazione alle “nuove regioni”, ovvero i quattro oblasti ucraini (Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhia) che seppur non ancora sotto il completo controllo delle forze di Mosca sono stati ufficialmente annessi alla Russia tramite referenda nel settembre del 2022. Il messaggio è chiaro: se nei negoziati di pace verrà stabilito che questi territori spettano di diritto a Mosca, a Washington sarà concesso l’accesso (almeno parziale) ai giacimenti presenti in quegli stessi territori.

Allo stesso tempo Putin attacca i Paesi europei, evocando una loro riscoperta debolezza (“Per migliaia di anni hanno avanzato richieste ai loro vassalli, ma ora sono loro a dover affrontare delle richieste”) nonché un loro essere sprovveduti nel concepire “l’idea inverosimile e illusoria di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia”. Sottolineare che, sebbene un loro eventuale ritorno al dialogo ben accetto da Mosca (“non neghiamo ai Paesi europei il diritto di far parte di questo processo”, adesso “per risolvere questioni impegnative e urgenti, anche sul fronte ucraino, Russia e Stati Uniti devono fare il primo passo”. Putin rovescia la logica dell’“Us and Them” ponendosi in estrema sintonia con Washington, e dipingendo i Paesi del Vecchio Continente come “ostacoli” nel perseguimento dell’interesse nazionale di Russia e Stati Uniti. Il fatto che fosse la Russia a porsi in contrapposizione all’interesse euroatlantico fino a poche settimane fa sembra essere un fattore risalente ad un passato ormai remoto.

Anche nei confronti dell’Ucraina il Presidente russo utilizza una traccia molto simile. Putin (specificando che su questo la pensi come il Presidente Trump, rimarcando ancora una volta il senso di vicinanza al nuovo leader americano) attacca Zelensky, che definisce una “figura tossica” per Kyiv e per le sue forze armate, accusandolo di subordinare le necessità militari ai suoi obiettivi politici, di non curarsi delle perdite causate da tale approccio, ma soprattutto di aver perso il consenso della popolazione ucraina. Affermando che l’ex-comandante delle forze armate ucraine Valerij Fedorovyč Zalužnyj disporrebbe di un sostegno popolare molto più ampio, e che quasi certamente vincerebbe delle elezioni libere. Non a caso, proprio Zalužnyj sarebbe il favorito di Trump per guidare l’Ucraina al posto di Zelensky.

Ma il fatto che i sondaggi dimostrino come l’attuale presidente goda del favore di due terzi della popolazione, mentre l’ex-comandante sarebbe scelto soltanto dal terzo rimanente, a Putin non interessa. Da una parte si è mostrato ancora una volta d’accordo con Trump su tutta la linea. Dall’altra, attraverso il suo pseudo-endorsement, ha cercato di minare l’unica figura politica che, al netto delle altalenanti rilevazioni demoscopiche, al momento potrebbe avere uno standing tale da aprirgli la strada alla presidenza. Standing che Putin, con le sue dichiarazioni, si è curato di picconare. D’altronde, risulta difficile credere che dopo più tre anni di guerra gli ucraini possano accettare un presidente visto di buon occhio dal loro invasore, anche se questo è stato effettivamente uno dei più grandi nemici dello stesso.

L’intervista di Putin non è un semplice esercizio retorico, ma un’arma di guerra a tutti gli effetti. Ogni frase è calibrata per dividere, indebolire e confondere gli avversari, creando crepe nel fronte occidentale e destabilizzando l’Ucraina dall’interno. E chi ci guadagna è uno solo: lui.

La guerra delle parole. Quanto (e come) pesa l'intervista di Putin

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