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Secondo Eleonora Ardemagni, gli Houthi non si fermarono. Per la ricercatrice associata Ispi e cultrice della materia in Storia dell’Asia Islamica e Nuovi conflitti all’Università Cattolica di Milano, dopo il doppio attacco anglo-americano contro le postazioni militari dell’organizzazione — ritorsione per la destabilizzazione prodotta nell’Indo Mediterraneo — “proveranno a utilizzare il raid anglo-americano (e quello solo americano di stanotte) per rafforzarsi sul piano interno e regionale. Giocheranno la carta della resistenza a Washington, dal loro punto di vista, per aumentare reclutamento e sostegno popolare”.

Lo hanno già fatto nel 2015, recitando il ruolo del gruppo che “resisteva” all’intervento militare dell’Arabia Saudita in Yemen, dopo aver fatto però un colpo di Stato. “Rispetto agli Hezbollah in Libano e anche alle Forze di Mobilitazione Popolare in Iraq, gli Houthi hanno molto meno da perdere in uno scontro diretto con gli Usa, perché già si muovono, da quasi nove anni, nel contesto della guerra in Yemen e non in una situazione di incerta stabilità (come Libano e lraq), dunque per loro è più facile ‘vendere’ internamente la risposta militare americana e strumentalizzarla a proprio favore”.

Impegno europeo

Certe valutazioni diventano fondamentali anche alla luce delle discussioni che riguardano una possibile missione militare europea per scortare le navi commerciali che seguono il corridoio Suez/Bab el Mandeb (dove gli Houthi hanno attaccato per 28 volte dal 19 novembre a oggi). Bruxelles è chiamata all’azione dagli alleati del blocco occidentale, perché mentre Londra e Washington sono già impegnati sia nella fase difensiva sia in quella offensiva, l’Europa non si è ancora attivata. Alcuni Paesi hanno dato singolarmente assenso all’operazione americana “Prosperity Guardian” — che si muove nell’ambito delle Combined Maritime Forces con incarico specifico di gestione dell’attuale crisi. Ma tra l’altro alcuni europei non apprezzano che questo sostegno venga reso pubblico.

La discussione (che dovrà essere risolta il più rapidamente possibile, certo prima della ministeriale Esteri di fine febbraio) riguarda le regole di ingaggio anche geografiche. Nella sostanza: solo Mar Rosso o anche Mar Arabico? Quello che potrebbe verificarsi è la creazione di una missione specifica come “Emasoh” per il monitoraggio dello Stretto di Hormuz (dove singoli Paesi Ue si sono fatti carico del monitoraggio del chokepoint nel Golfo Persico sotto una dichiarazione europea congiunta e nel rispetto della United Nations Convention on the Law of the Sea. Oppure una qualche integrazione di EuNavFor “Atalanta”, che controlla la sicurezza marittima nelle acque dove l’Oceano Indiano tocca l’Africa settentrionale. In entrambi i casi, le attività sono gestite in modo integrato, ma autonomo, da quelle statunitensi.

Ed è questo un primo elemento, che ne crea due concatenati. Alcuni Paesi europei avrebbero espresso volontà a muoversi indipendente, perché temono che l’attività statunitense — fatta anche di azioni cinetiche offensive — possa infiammare la situazione. Sì teme l’apertura di un altro fronte di combattimento, oltre a Gaza e a quello siriano, iracheno e libanese che sono già piuttosto sensibilizzati. Anche se è vero che gli attacchi dal fronte yemenita sono già stati diversi. In più, terzo elemento oltre all’indipendenza dagli Usa e i timori del nuovo fronte, certi membri Ue sono preoccupati che le attività americane possano produrre un aumento del coinvolgimento diretto dell’Iran e di altre milizie collegate.

La partita iraniana e il quadro dal Golfo

“L’Iran continuerà a fare ciò che ha fatto finora: sostenere militarmente gli houthi che sono loro alleati. Teheran intende mantenere l’epicentro dello scontro regionale lontano dal Golfo e insieme indebolire Israele e i suoi alleati, a cominciare dagli Stati Uniti: il fronte del Mar Rosso aperto dagli houthi consente entrambe le cose. A livello globale, l’Iran è l’unico attore statale che attualmente non ha interesse alla libertà di navigazione nel Mar Rosso”, spiega Ardemagni.

Un altro elemento che va valutato, anche nell’ottica di una futura missione europea, riguarda la lettura che i grandi Paesi del Golfo danno della situazione. Un’assenza pressoché totale dalle attività da parte dell’Ue potrebbe non essere positiva per la credibilità dell’Europa di essere un attore geopolitico — soprattutto considerando il valore geoeconomico dell’area interessata. Effetti potenziali potrebbero toccare anche la credibilità di Bruxelles nei confronti del Global South o di grandi player come l’India (che ha attivato tre assetti navali in questa fase di emergenza).

“Guardando ai comunicati diffusi, le differenze di valutazione da parte dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi emergono con chiarezza: entrambe le monarchie vogliono ripristinare la sicurezza del Mar Rosso, ma hanno ricette diverse per farlo”, commenta Ardemagni. Quali? “I sauditi temono la ritorsione degliHouthi e il punto di non ritorno in Yemen, quindi continuano a privilegiare la via diplomatica del negoziato diretto con il gruppo yemenita, sperando (secondo me vanamente) che l’Iran favorisca la de-escalation. Gli emiratini invece sono stati da subito più aperti nei confronti dell’ipotesi dei raid anglo-americani, probabilmente perché non hanno negoziati in corso con gli houthi e dispongono anche di milizie alleate in Yemen, nelle regioni del sud e dell’ovest, che già in passato erano pronte a combattere direttamente gli Houthi nel tentativo di riprendere Hodeida”, porto sul Mar Rosso, tra i luoghi colpiti da Usa/Uk.

In definitiva, per Ardemagni, considerando l’ambiguità degli Houthi, “che non sceglieranno mai nettamente tra violenza e diplomazia”, potrebbero essere proprio gli Emirati i più esposti nella regione a una possibile ritorsione degli Houthi, “che non vorranno bruciare subito i ponti con Riad, ma giocarsi bene l’accresciuto potere negoziale”.

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