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Il film, a onor del vero, è di quelli già visti. Ma è il dibattito, semmai, che è attuale, se non altro perché il problema non è risolto. Una grande azienda con solide radici italiane che decide di spostare il proprio baricentro, fiscale, legale o industriale non fa molta differenza, in un altro Paese. Dove magari si pagano meno tasse, le regole hanno una propria chiarezza, senza finire preda di certa schizofrenia e si compete meglio sul mercato.

Negli anni addietro è successo, tanto per citarne qualcuna, con Fca, Campari, Mediaset e persino Ferrero. La calamita di turno è quasi sempre l’Olanda, non tanto per l’aspetto fiscale, che comunque ha la sua importanza visto che il carico tributario locale è più leggero e meglio distribuito, quanto per l’indubbia snellezza delle regole che disciplinano le aziende e i loro affari. Per l’Italia è quasi sempre un danno, dal momento che oltre a perdere gettito e posti di lavoro, ne viene macchiata anche l’immagine, facendola apparire come un Paese poco competitivo e poco attraente. Il che, per una Nazione del G7 e seconda manifattura d’Europa non è proprio un toccasana.

Ora, l’ultima a salire sul carro di chi decide di delocalizzare è Barilla, uno dei gruppi alimentari più famosi d’Europa, emblema del made in Italy e giunto alla quarta generazioni di imprenditori. Senza perdersi in mille rivoli, come raccontato dal Corriere della Sera, dal 2024 il gruppo Barilla avrà un nuovo formato societario. Nei mesi estivi ha infatti preso corpo il riassetto del colosso italiano della pasta che mira ad accelerare la propria crescita internazionale. Tradotto, il cuore e la testa dell’azienda rimarranno a Parma, ma il piano di riorganizzazione farà perno su una holding olandese, la neo-costituita Barilla International BV, con sede ad Amsterdam. La cassaforte dei Paesi Bassi finirà così per controllare l’intero capitale di Barilla.

Tutto ciò premesso, la notizia ha innescato un dibattito sulla rete, in particolare su X (l’ex Twitter), innescato da un cinguettio del giornalista ed ex direttore di Formiche.net, oggi alla guida di Start Magazine, Michele Arnese, nel quale si dava conto di quanto raccontato dal quotidiano di via Solferino. Al confronto hanno partecipato tuttavia due personalità che, seppur in campi diversi, di industria se ne intendono. Da una parte il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che in passato ha guidato anche le imprese del settore, riunite nell’Aiad. Dall’altro, Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista della Bocconi, saggista e gran conoscitore di cose industriali.

Un botta e risposta via etere ma che se letto in controluce finisce per incontrare un punto di caduta sostanzialmente comune. E cioè l’ammissione e la constatazione che l’Italia, se non vuole perdere altri pezzi pregiati della propria industria, deve diventare più attraente, competitiva e soprattutto semplificare al massimo la burocrazia applicata alle imprese e questo a prescindere dal colore del governo di turno. E farlo sul serio.

E dunque, partendo proprio da Maffè, secondo l’economista “quando i populisti avranno non solo respinto e cacciato tutte le multinazionali straniere ma anche fatto fuggire dalla giurisdizione nazionale anche tutte le multinazionali italiane, potranno celebrare la vittoria del loro micro-capitalismo parrocchiale, prendendo un taxi per andare al Papeete a festeggiare ballando l’inno di Mameli sulle sacre spiagge sovrane. Ammesso di trovarlo, un taxi”. Insomma, se le aziende continuano a darsela a gambe è perché persiste una certa cultura anti-industriale di matrice, per l’appunto, populista.

Ma è proprio qui che Crosetto è intervenuto per fare chiarezza, rispedire al mittente le insinuazioni ed evitare di ridurre il dibattito a una mera critica al governo di Giorgia Meloni. Come a dire, nel mirino ci deve essere chi non si adopera per aumentare l’appeal dell’Italia, prescindendo dall’appartenenza politica. In questo senso il titolare di Palazzo Baracchini ha rimarcato come “in realtà scappano (le multinazionali, ndr) da tempo, da molto prima che i ‘populisti’ prendessero voti (per amore di verità) e nessuno ha provato a fermarle. Sbagliando. Sarebbe ora di farlo creando le condizioni di competizione positiva, economica, fiscale, giurisdizionale , tra nazioni. Almeno Ue”.

Il minimo comun denominatore c’è, fatta la tara dalla polemica politica: rendere lo Stivale un Paese migliore per chi vuole fare impresa. Nonostante tutto, Maffè ha però contro-risposto a Crosetto. “Caro Guido, diritto societario e sistema giudiziario in Olanda (ben più che le minime differenze in aliquote fiscali) sono esempi dei fattori di ‘competizione positiva’ che tu stesso citi. Il populismo italiano, di tutti i colori, è al contrario esplicito nell’avversare i modelli organizzativi del capitalismo internazionale, e non perde occasione di sbandierarlo agli ingenui elettori, con parole e decreti scellerati. È la ricetta più efficace per accelerare il declino del Paese, ma evidentemente alla maggioranza va bene così”.

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