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Grazie all’autorizzazione dell’autore e del direttore del Tempo, Sarina Biraghi, ospitiamo il commento dell’editorialista Federico Guiglia pubblicato oggi sul Tempo

Proprio il grande rispetto che ho sempre nutrito – e continuo a nutrire – nei confronti del Papa e, in particolare, di questo Papa così tenero e severo custode della dottrina millenaria della Chiesa, mi porta a una conclusione opposta all’opinione prevalente, direi assoluta, che si legge sui giornali e si ascolta in tv sulla rinuncia di Joseph Ratzinger: a differenza di chi elogia il suo gesto, io dico che Benedetto XVI non doveva dimettersi.

L’amore per la verità, la personale, terrena e relativissima verità che può esprimere un giornalista, e che io intendo esprimere fino in fondo, non può nascondersi dietro la comprensione di un gesto certamente coraggioso e “a ragion veduta”: la scelta di un Papa che ritiene di non poter più fare il Papa (“le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”) e perciò annuncia “urbi et orbi”, e significativamente in latino, il suo abbandono della sede di San Pietro. L’amore per la verità dei fatti, anzi, del fatto senza precedenti da molti secoli, impone una riflessione con la stessa onestà di chi la pensa in modo diverso, e senza per questo voler minimamente giudicare né la persona né la figura di Joseph Ratzinger, comunque un Grande già considerato tale dalla Storia.

Ma gli interrogativi che il sorprendente e fulmineo “gran rifiuto” comporta, sono semplici e di puro buonsenso. Il primo è questo: se un Papa – un Papa, non un amministratore delegato, un politico, un dirigente o un generale o chiunque altro – getta la spugna, che messaggio arriva agli altri e al mondo? Di fronte alle difficoltà che la vita e le circostanze riservano a ciascuno degli oltre sei miliardi d’abitanti sulla Terra, davanti ai sacrifici inenarrabili che donne e uomini del nostro tempo compiono ogni giorno, e talvolta al prezzo stesso della vita, la rinuncia non è mai una soluzione. O meglio, è la soluzione più facile, paradossalmente. La soluzione più difficile è, al contrario, “non scendere dalla croce”, come rispose un altro amatissimo Papa, proprio il predecessore di Ratzinger, a chi gli consigliava di ritirarsi, date le durissime condizioni che fu costretto a subire per la tragica malattia nel tempo conclusivo della vita, e “condivisa” dal mondo intero quasi giorno per giorno. Ma Karol Wojtyla visse il martirio fino all’ultimo respiro. E quell’esempio rappresenta un insegnamento per tutti.

E poi: che effetto potrà mai avere la rinuncia del Papa sul già sperimentato “calo delle vocazioni” dei sacerdoti? Se non ci crede Lui, perché dovrebbero crederci gli altri? Perché dovrebbero credervi i credenti, quel miliardo e duecento milioni di persone sparsi per il globo per i quali la Chiesa cattolica, apostolica e romana è un punto di riferimento? Anzi, è “il” punto di riferimento. Che cosa potrebbero pensare i missionari in trincea in Africa o i parroci di frontiera a Scampia e ovunque?

Intendiamoci bene, lungi da me sindacare sulle ragioni private e di salute di un Papa che comunque e nonostante i quasi ottantasei anni, conserva una lucidità e una cultura ineguagliabili. Qui, lo ripeto, non si sta giudicando nessuno, e meno che mai un Papa. Il pulpito, oltretutto, è una prerogativa dei religiosi. Però la caratteristica di Joseph Ratzinger, ciò che lo rendeva e rende diverso da altri pontefici, procurandogli meno popolarità rispetto a Wojtyla e anche forti ostilità dagli avversari, era ed è proprio una certa idea della Chiesa. La verità contro il relativismo, per esempio: fu lui a teorizzarla. La fede che deve convivere con tutte le fedi, senza tuttavia perdere la sua forza antica e propulsiva, che è l’amore cristiano. Senza inseguire le mode o “il pensiero corrente” della secolarizzazione, a costo di scontrarsi, come le tesi di Ratzinger si sono scontrate in questi anni, con punti di vista molto diversi, per esempio sul tema della famiglia. L’autorevolezza del Papa contro ogni lotta interna di potere in Vaticano. La sacralità del ruolo, il suo secolare mistero: qualcosa ai limiti del divino che da duemila anni incanta anche chi non crede.

Insomma, il Benedetto XVI che si dimette, con tanto di giorno e ora fissati in calendario, non sembra il Benedetto XVI che ci si aspetterebbe dal suo intenso, intransigente e integerrimo predicare. Anche non considerando il punto di vista cattolico, secondo il quale il successore di San Pietro risponde solo a Cristo, anche senza voler paragonare le scelte molto diverse dei due Papi in successione -Wojtyla e Ratzinger-, la vita bimillenaria della Chiesa di Roma non può finire come nel film, peraltro molto bello, di Nanni Moretti: l’“habemus Papam” è per sempre e non può contemplare le umane dimissioni.

Perché Benedetto XVI non avrebbe dovuto dimettersi

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