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Guido Bodrato era un piemontese “integrale”, come capita d’immaginare che sia un uomo nato in un paese di milleseicento anime del Roero, Montèj Roero, l’area più a nord della provincia di Cuneo.

Uomo ruvido ma gentile, austero e irriducibile nella difesa dei principi, lo vedevi sempre col fascio dei giornali e qualche libro fresco di stampa sotto il braccio o debordante nelle sue borse piene di carta. Lo incontravi in libreria, a qualche mostra, in qualche cinema d’essai, più raramente nei ristoranti alla moda pieni di avventori pacchiani, nella Roma del generone politico, che era pacchiano pure allora.

Sicuramente non mancava ai convegni e seminari di partito, spesso e volentieri promossi da lui stesso. La sua “democristianità” era vocata al sociale, attraversata dall’esperienza dell’associazionismo cattolico-democratico e dal sindacalismo cislino.

Decisivo fu l’incontro con un ligure-piemontese integrale, austero come lui ma più burbero di lui, Carlo Donat Cattin, fondatore della corrente di Forze Nuove che raccolse le posizioni della Sinistra sociale democristiana con piglio sempre combattivo e sicuramente senza troppe circonlocuzioni per esprimere concetti.

Perché in questo Bodrato, così come Donat Cattin, furono innovatori: l’uso di un linguaggio diretto, colto ma rivolto al popolo e non solo agli addetti ai lavori, un linguaggio che doveva parlare agli operai così come alle casalinghe e agli intellettuali, in uno sforzo di pedagogia democratica che si addice alla politica (e che poi è stato smarrito).

E poi il gusto del dialogo: poteva dimenticare il pranzo o la cena per parlare dell’umanesimo integrale di Maritain o del significante politico di un film di Bellocchio o della politica fiscale del governo in carica. O della legge elettorale: proporzionalista coerente e non pentito, dopo la fine della prima Repubblica e l’avvento dei sistemi elettorali maggioritari, dove il consenso personale, tra liste bloccate e collegi uninominali senza intuitus personae, non aveva più valore, scelse di non candidarsi più dopo sette legislature alla Camera.

Tornò a svolgere un ruolo di rappresentanza nel 1999 con le elezioni europee, basate sul proporzionale con voto di preferenza. Fu capolista dei Popolari nella circoscrizione nord-ovest e raccolse oltre 40.000 preferenze. Ricordo quegli anni tra Bruxelles e Strasburgo: lui era il capodelegazione dei Democratici cristiani italiani nel Partito popolare europeo in grande sofferenza per la politica del Ppe di accoglienza delle forze conservatrici che stravolgevano lo statuto valoriale dei Popolari europei, nipoti di De Gasperi, Schuman, Adenauer.

La sofferenza sfociò inevitabilmente nello strappo, nel 2004, insieme con i popolari francesi di Bayrou, con i catalani e alcuni belgi. La sua storia politica è il paradigma dei cursus honorum del tempo: il giovane dottore in giurisprudenza diventa ricercatore universitario. Percorre tutto l’itinerario della rappresentanza che dal locale arriva al nazionale, approda a Roma: viene eletto deputato nel 1968 e riconfermato per 26 anni dal voto popolare. Fu ministro della Pubblica istruzione dal 1980 al 1982 (nei governi Forlani I e Spadolini I e II) e poi ministro del Bilancio e della programmazione economica nel V governo Fanfani e infine ministro dell’Industria e del Commercio nel governo Andreotti VII.

Fece parte del gruppo di testa che lavorò con Benigno Zaccagnini alla rifondazione della Dc, di cui fu vice segretario unico ai tempi di De Mita e poi di Forlani.

Dopo Tangentopoli venne chiamato a dirigere il Popolo, il quotidiano di partito, ruolo che lasciò nel 1999 quando venne eletto al Parlamento europeo. Perché Bodrato non si iscrisse mai alla lista degli incettatori di incarichi. E seppe fare bene anche il giornalista.

Bodrato, un piemontese ruvido ma gentile. Il ricordo di Pisicchio

Guido Bodrato, così come Donat Cattin, fu un innovatore con l’uso di un linguaggio diretto, colto ma rivolto al popolo e non solo agli addetti ai lavori, un linguaggio che doveva parlare agli operai così come alle casalinghe e agli intellettuali, in uno sforzo di pedagogia democratica che si addice alla politica (e che poi è stato smarrito). Il ricordo di Pino Pisicchio

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