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Esistono da tempo diverse e ottime ragioni per avviare un ripensamento del ruolo dello Stato nell’economia italiana. E ora esiste anche un preciso e stringente vincolo giuridico che renderà quasi obbligato questo ripensamento. Infatti oltre al Fiscal compact, l’accordo intergovernativo concluso tra 25 Stati dell’Unione europea che prevede rigidi paletti sui conti pubblici, ma che non è ancora entrato in vigore, già dal dicembre scorso è vigente una nuova legge comunitaria (Six pack) che richiede al nostro Paese un rapido abbattimento del debito pubblico.
 
Pur con tutti i “fattori rilevanti” che Bruxelles terrà in considerazione, l’Italia avrà in teoria tre anni per arrivare a ridurre il debito pubblico di 1/20 l’anno rispetto alla quota eccedente il 60% del Prodotto interno lordo. E già nel periodo transitorio il Paese dovrà convergere verso questo ritmo di risanamento, salvo incorrere da subito in sanzioni.
 
Una diminuzione del debito, oggi al 120% del Pil, dovrebbe prevedere secondo questo schema manovre correttive da 40-50 miliardi di euro, ogni anno, per 20 anni. Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha parlato di impegno “certamente severo, ma non impossibile se saremo capaci di far tornare a crescere l’Italia”. Il ragionamento del premier, però, è almeno in parte ipotetico: cosa succede se l’Italia non torna a crescere? E se non ottiene un robusto avanzo primario? È anche per questo che da mesi si stanno dibattendo varie ipotesi per aggredire in maniera rapida lo stock del debito pubblico.
 
Tralasciamo i vari progetti di “imposta patrimoniale”, che comporterebbero un ulteriore incremento della pressione fiscale (già da record) e un rafforzamento della presa dello Stato sulla vita del cittadino. Pur restringendo l’attenzione alle cosiddette “privatizzazioni”, il fronte delle proposte rimane frastagliato. Un primo approccio, classicamente liberista, prevede una radicale politica di privatizzazioni di asset mobiliari e immobiliari dello Stato. Secondo l’Istituto Bruno Leoni, tale scelta offrirebbe “un doppio dividendo”: l’abbattimento del debito, certo, ma anche un effetto pro-crescita grazie a un rinnovato impulso al ritiro del settore pubblico dall’economia.
 
Se il fine immediato è comunque quello di rispettare vincoli più stringenti sul debito pubblico, le stime del think tank, riferite ai soli asset di proprietà del ministero dell’Economia, prevedono “un potenziale gettito di circa 200 miliardi di euro, di cui circa la metà dalle società del Tesoro e la restante parte dalle cessioni immobiliari”.
 
Le privatizzazioni dal “doppio dividendo” erano pure al centro della proposta avanzata nel luglio scorso dagli economisti Luigi Zingales e Roberto Perotti per anticipare il raggiungimento del pareggio di bilancio, e contestualmente avviare un percorso di crescita: Zingales e Perotti suggerirono di privatizzare le maggiori aziende in mano pubblica (Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Finmeccanica, Fintecna, Cassa depositi e prestiti, Rai) per un valore di 140 miliardi di euro; e di privatizzare le municipalizzate (30 miliardi di euro). Il governo rimane al momento cauto sul tema: fare cassa vendendo beni pubblici “non è una priorità – ha detto Monti a febbraio – anche perché nel passato si è stati costretti a privatizzazioni non sempre fatte nel modo migliore”.
 
Potrebbe quindi riprendere quota una proposta già discussa in Via XX Settembre: un processo di “valorizzazione” degli asset pubblici. Questi beni – è l’assunto di partenza – offrono un rendimento standard allo Stato proprietario, rendimento che aumenta al crescere dell’efficienza della gestione degli stessi beni. Secondo alcune stime presentate al tavolo della riforma fiscale avviato dall’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a fronte di un patrimonio fruttifero – tra immobili, partecipazioni e concessioni – stimato in quasi 700 miliardi di euro, la redditività effettiva risulta oggi negativa per 1 punto percentuale, dal momento che a un rendimento di 0,9 punti si associano costi di gestione valutabili in 1,9 punti percentuali (fonte Abi).
 
Si tratta di una vera e propria “situazione di distruzione del valore”, per usare le parole di Stefano Scalera, dirigente del Tesoro e direttore dell’Agenzia del demanio. Eppure attraverso razionalizzazione degli spazi e riduzione dei costi di gestione degli immobili, forme di partecipazione dei privati alla gestione della cosa pubblica, accentramento dei servizi e fusione di aziende simili per quanto riguarda le partecipate (a partire da quelle locali), si potrebbero ottenere sinergie di costo e controllo della spesa.
 
Secondo le proiezioni dell’Abi, “se nel breve periodo sarebbe più conveniente fare affidamento sul piano di dismissione, un’azione di aumento della redditività del patrimonio risulterebbe invece in grado di massimizzare la riduzione del rapporto debito/Pil nel più lungo termine: questa opzione consentirebbe infatti di raggiungere nel 2035 un livello del rapporto di poco superiore al 60%, livello di oltre 13 punti inferiore a quello che si otterrebbe via dismissioni”.
 
Edoardo Reviglio, capo ufficio studi della Cdp, in una recente nota ha definito la “riforma del patrimonio pubblico” come una “riforma strutturale per la crescita”. E ha suggerito di “dare in mano l’avvio della riforma ad un organo politico che sappia fungere da cabina di regia del processo”, “un ministero per la riforma, valorizzazione e privatizzazione del patrimonio pubblico”. Anche perché un mix dei due approcci – valorizzazione e privatizzazione – è possibile, anzi auspicabile.
 
Quale che sia alla fine la strada scelta, nessuna di queste potrà essere percorsa in mancanza di un preventivo esercizio di classificazione e contabilizzazione del patrimonio stesso. Solo così potranno essere sfruttati in maniera virtuosa i nuovi vincoli di bilancio, mettendo fine all’“illusione finanziaria” – come la definì all’inizio del ‘900 l’economista Amilcare Puviani – grazie alla quale lo Stato, attraverso il ricorso all’indebitamento, falsa le percezioni dei contribuenti a suo vantaggio.

Puntiamo sul patrimonio pubblico

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