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La Semiconductor Industry Association (Sia) ha rilasciato, nella giornata di lunedì, un importante comunicato stampa riguardante possibili nuove restrizioni governative sui chip.

“Riconoscendo che una forte economia e la sicurezza nazionale richiedono un’industria dei semiconduttori statunitense forte” si legge, “l’anno scorso i leader di Washington hanno intrapreso un’azione coraggiosa e storica, promulgando il Chips and Science Act, per rafforzare la competitività globale del nostro settore e ridurre i rischi per le catene di fornitura. Permettere all’industria di continuare ad accedere al mercato cinese, il più grande mercato commerciale al mondo per i semiconduttori di base, è importante per evitare di compromettere l’impatto positivo di questo sforzo. Tuttavia, le ripetute misure volte a imporre restrizioni troppo ampie, ambigue e talvolta unilaterali rischiano di ridurre la competitività dell’industria statunitense dei semiconduttori, di interrompere le catene di fornitura, di causare una significativa incertezza del mercato e di provocare una continua escalation di ritorsioni da parte della Cina”.

La presa di posizione della Sia, associazione che raccoglie la maggior parte dei chipmakers americani, è molto forte e ribadisce quanto più volte sostenuto dai manager del settore: senza la Cina, le aziende statunitensi (e non solo) perderebbero un mercato di riferimento enorme. Le vendite nel settore dei semiconduttori, in particolare nel segmento di design dove gli Stati Uniti guidano con più del 48% del mercato globale, sono funzionali all’innovazione e alla ricerca e sviluppo. Inoltre, il rilancio dell’industria dei semiconduttori americana con il Chips Act – che punta a rafforzare il comparto manifatturiero, dei materiali e a rilanciare gli investimenti pubblici su R&D – rischia di essere compromesso con le inevitabili conseguenze lungo la supply chain. Sono infatti già 140 i miliardi di dollari in investimenti privati annunciati negli Usa lungo tutta la filiera, sppur rimanga un problema strutturale sulla forza lavoro qualificata per operare gli impianti.

L’amministrazione Biden sta infatti considerando di prendere ulteriori misure alla vendita di chip alla Cina, con l’obiettivo di colpire gli sforzi di Pechino di utilizzare l’intelligenza artificiale per scopi dual use, in particolare nel settore militare. Uno scenario che porterà ad una serie di colloqui privati tra i principali CEO ed esponenti delle aziende americane con la Casa Bianca.

Il Dipartimento del Commercio starebbe infatti valutando di bloccare l’export di chip prodotti da Nvidia e altri chipmakers ai clienti cinesi senza prima ottenere una licenza governativa, espandendo dunque quanto già previsto con il pacchetto di restrizioni del 7 ottobre 2022 e in seguito all’accordo multilaterale con Giappone e Olanda per limitare l’expor di tecnologie ed equipaggiamento per la fabbricazione di chip logici sotti i 14 nanometri.

Secono quando previsto dal Bureau of Industry and Security (Bis), i controlli di ottobre 2022 andrebbero a targetizzare i chip per il supercalcolo e l’IA, tra cui i chip H100 di Nvidia e MI250 di Amd. Fino ad ora, gli Usa hanno stabilito una “soglia” per l’applicazione delle restrizioni, pari a 4800 TOPs*bits (ovvero tera operations per secondo). Questi controlli nel complesso potrebbero, perlomeno nel breve termine, impattare direttamente la capacità della Cina di fabbricare chip che contano sulla miniaturizzazione per guadagni esponenziali sulla potenza di calcolo (in particolare, per server, laptop, processori grafici e degli smartphone). Mentre altri importanti segmenti, dove la Cina possiede capacità manifatturiere consolidate, verrebbero risparmiati.

Uno scenario che ha spinto Pechino al contrattacco, imponendo licenze per l’export di materiali critici per la fabbricazione di chip come gallio e germanio, seppur l’impatto sull’industria americana sia ancora da valutare. Di recente il Dipartimento dell’Energia ha inserito nella lista il carburo di silicio, considerato fondamentale anche per le tecnologie rinnovabili e soprattutto per gli EV.

Proprio per aggirare le restrizioni e salvaguardare la propria fetta di mercato, Nvidia aveva risposto proponendo una versione dei suoi chip per IA, destinati al mercato cinese, chiamati A800, al di sopra della soglia prevista dal governo americano. Secondo le ricostruzioni del Wall Street Journal, gli Usa starebbero valutando di includere anche quest’ultima famiglia di chip. Una misura che, secondo il chief financial officer di Nvidia potrebbe comportare “una perdita permanente di opportunità per l’industria americana” in Cina qualora venisse proibita la vendita di chip per l’intelligenza artificiale. Azioni che, tuttavia, rispondono ad un imperativo categorico: secondo uno portavoce del National Security Council della Casa Bianca, sarebbero state “impostate con precisione per focalizzarsi su tecnologia con implicazioni per la sicurezza nazionale e per assicurare che le tecnologie americane e alleate non siano usate per compromettere la nostra”.

Un delicato equilibrio tra mercato e sicurezza. Secondo i dati raccolti da Nikkei Asia, le grandi compagnie tech americane faticherebbero a sopportare, in termini di entrate, un totale decoupling dalla Cina. Qualcomm, azienda leader nel design di chip – insieme a Broadcomm, Nvidia, AMD e Apple solo nel 2021 avevano totalizzato 345 miliardi di dollari di vendite – ha contato sul mercato cinese per il 62% delle vendite, seguito da Texas Instruments con il 48%, Broadcom con il 34%, Applied Materials (azienda specializzata nella vendita di materiali litografici) con il 27%, e poi Intel (26%), Tesla (21.8%), Apple (17.7%) e Microsoft (12.4%).

A livello globale, le tensioni geopolitiche e la guerra tecnologica tra USA e Cina sembrano farsi sentire. La Sia ha registrato lo scorso mese un tonfo importante nel mercato a maggio 2023, con il 21.1% in meno di vendite rispetto all’anno precedente (40.7 miliardi contro i 51.7 di maggio 2022). Seppur le vendite mensili nel complesso continuino a crescere, a livello regionale la crescita rimane modesta, con perdite significative in Giappone (-5.5%), Asia Pacifico (-23%) e Cina (-29.5%).

In un interessante commento Robert D. Atkison, direttore del think tank Information Technology & Innovation Foundation (Itif), ha infatti ribadito quanto ai settori con alti costi fissi e di capitale come appunto quello dei semiconduttori, che rappresentava il quinto per export (61 miliardi) dietro a petrolio raffinato, aeromobili, petrolio grezzo e gas naturale nel 2022, debba essere garantito l’accesso ai mercati globali. Considerando che i costi per disegnare un chip sono elevatissimi (circa 540 milioni di dollari per un chip da 5 nanometri) e crescono esponenzialmente con la miniaturizzazione, prima di recuperare gli investimenti iniziali in R&D le aziende devono poter vendere milioni di singole unità.

It’s the economy: con la vendita progressiva, il costo unitario diminuisce consentendo dunque alle singole aziende enormi profitti pronti per essere reinvestiti in R&D, cementando la posizione di mercato e la leadership tecnologica statunitense. È la dinamica che ha concesso agli Stati Uniti di dominare il segmento design, Eda (i software che consentono di concepire architetture sempre più complesse, con il 74% del mercato), seppur ciò abbia favorito l’esternalizzazione dei costi della fabbricazione dei chip, ora dominata da Taiwan. Con nuove limitazioni all’export, le aziende americane faticherebbero a riassorbire i costi iniziali, rischiando di perdere share di mercato a vantaggio di aziende emergenti in Cina, spinte dalla necessità di costruire (non senza difficoltà considerando l’impossibilità di accedere a input e strumentazioni all’avanguardia) un’industria domestica più autosufficiente.

“Questo è moltivo per cui [l’economia di, n.d] scala è così cruciale per i semiconduttori, e se l’America vuole riguadagnare la leadership – che  il Chips Act aiuterà a raggiungere – il governo federale deve fare tutto quello in suo possesso per massimizzare le opportunità di mercato. Farlo significherebbe consentire alle aziende americane di vendire prodotti a prezzi più competitivi e massimizzare gli investimenti in R&D per rimanere competitive nei futuri cicli produttivi”.

Dunque, l’accesso ai mercati globali rimane una condizione esistenziale per le industrie con altissimi costi fissi. “È tempo che la politica commerciale e di sicurezza nazionale statunitense faccia i conti con questa realtà sfumata e sofisticata”.

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