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In aprile il Piano nazionale di riforma (Pnr), dovrà essere finalizzato e presentato alle autorità europee. Le parti sociali ed il Cnel hanno presentato le loro osservazioni a fine febbraio. All’inizio del mese, inoltre, il governo ha definito obiettivi molto più ambiziosi (una crescita del Pil del 3%, mentre il Pnr ne prevedeva un graduale aumento per giungere al 2% dal 2012) ed un programma più aggressivo di liberalizzazioni. Mentre la bozza del Pnr ha ricevuto poca attenzione, le nuove misure aggiuntive sono state ampiamente commentate in vario modo – chi le ha viste come un vero e proprio ritorno alla politica riformatrice promessa nel 1994, chi le ha ritenute come una manovra per prolungare la durata di un esecutivo che sarebbe già decotto.
Ambedue queste letture sono in gran misura di parte. Quindi non saranno gli elementi centrali della verifica che verrà fatta in sede europea. I punti chiave sono altri: a) la credibilità del Pnr e dei nuovi obiettivi e strumenti; b) le condizioni per fare comunque crescere l’Italia dopo tre lustri di stagnazione. Sono strettamente interconnessi. Ricordiamoci le vicende dell’estate 1992 e della primavera del 1995. Nel primo caso, appena firmato il Trattato di Maastricht, demmo, a torto o ragione, la sensazione che agli impegni non sarebbero seguiti i fatti: nonostante la maxi-manovra adottata dal governo Amato in agosto, in settembre ci sospendemmo dallo Sme e la lira perdette il 30% del proprio valore. Nel 1995, la riforma della previdenza venne approvata mentre i mercati davano nuovi colpi al valore della lira e solo dopo il varo riacquistammo la fiducia internazionale. Tanto più che studi econometrici della Commissione Ue e della Bce pongono all’1,3%
il tasso potenziale di crescita a ragione della struttura demografica e dell’apparato produttivo del Paese.
 
Cosa fare per crescere di più e meglio? Senza dubbio un programma di liberalizzazioni – peraltro già previsto nel Pnr – ed una riduzione del debito pubblico potrebbero contribuire. Ma non sarebbero sufficienti.
Dato che per incidere in misura significativa sulla struttura demografica ci vogliono almeno tre decenni di politica “natalista”, ed almeno quindici anni per avere effetti sul capitale umano (tramite miglioramenti dell’istruzione e della formazione), nel breve-medio periodo si deve pensare a questi strumenti (in aggiunta a quanto già nel Pnr):
a) la ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi venti anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna ed altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente ed ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali. Il processo è descritto con cura nel rapporto su ricerca, innovazione ed andamento tecnologico in Germania, pubblicato l’autunno scorso dal Politecnico di Monaco di Baviera;
b) l’aumento delle ore di lavoro effettivamente lavorate. Secondo i dati Ilo, la media italiana è di 1450 ore, rispetto alle 1790-1670 di spagnoli, tedeschi e britannici.
Ciò comporta una vera rivoluzione sia nelle abitudini sia nei servizi sociali (integrati nel manifatturiero nelle grandi imprese tedesche e francesi);
c) portare le liberalizzazioni a livello locale nella giungla del capitalismo municipale, spesso preda di oligopoli collusivi (eloquente il caso dei taxi a Roma), ma ciò richiede probabilmente una norma costituzionale.
Con uno sforzo determinato da parte di tutti si potrebbe arrivare ad una crescita del 2,5% dal 2013.

Possiamo crescere di più?

In aprile il Piano nazionale di riforma (Pnr), dovrà essere finalizzato e presentato alle autorità europee. Le parti sociali ed il Cnel hanno presentato le loro osservazioni a fine febbraio. All’inizio del mese, inoltre, il governo ha definito obiettivi molto più ambiziosi (una crescita del Pil del 3%, mentre il Pnr ne prevedeva un graduale aumento per giungere al 2%…

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