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L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Lo recita solennemente l’art. 1 della Costituzione, invocato da quanti, vittime della peggiore propaganda sindacale, continuano a credere che sussista un “diritto” all’occupazione. Nella Carta costituzionale il lavoro è un paradigma di valutazione, che elegge il merito (lavorativo) rispetto agli altri indici sui quali, storicamente, è ordinata la comunità civile, come il censo, il sesso, la forza, la religione. L’ideologia della sovranità del mercato ha, poi, ulteriormente confuso il valore del paradigma, identificando, e con ciò riducendo, il lavoro all’attività utilitaristica con fine il guadagno. Si è persa, così, quella nozione del lavoro come actus personae, come strumento di auto-realizzazione dell’uomo.
 
È evidente che il lavoro serva, ai più, per procurarsi i mezzi per vivere; ma solo la peggiore demagogia liberista può portare a ritenere che serva solo a ciò. Nel 2009 ha riscosso un emblematico successo il saggio L’uomo artigiano di R. Sennet. Il sociologo americano scrive: «Il falegname, la tecnica di laboratorio e il direttore d´orchestra sono tutti artigiani, nel senso che a loro sta a cuore il lavoro ben fatto per se stesso. Svolgono un´attività pratica, ma il loro lavoro non è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine di un altro ordine. Se lavorasse più in fretta, il falegname potrebbe vendere più mobili; la tecnica del laboratorio potrebbe cavarsela demandando il problema al suo capo; il direttore d´orchestra sarebbe forse invitato più spesso dalle orchestre stabili se tenesse d´occhio l´orologio. Nella vita ce la si può cavare benissimo senza dedizione. L´artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno».
 
Oggi, che la crisi ha raggiunto il suo apice si dà per scontato che il criterio per decidere gli investimenti a favore del lavoro debba essere, secondo il mainstream liberista, quello economico dell’efficienza e dell’efficacia: da incentivare sarebbero le sole attività economicamente più redditizie. Ma, così, si condannano alla perdizione quei lavori che si connotano per la capacità di produrre ricchezza ma, soprattutto, di realizzare valori sia per chi le esercita sia per la collettività. Il filosofo A. MacIntyre li designa come pratica: «qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei modelli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono». Per intenderci, il lavoro del muratore non è una pratica; l’architettura sì. Si tratta di quel genere di attività umane che costituisce “l’arena in cui le virtù si manifestano” (in senso aristotelico) in quanto conformando i comportamenti personali ai modelli di eccellenza si ottengono i valori insiti nel modello medesimo.
 
Questi valori sono di due tipi: estrinseci ed intrinseci. I primi − che appartengono solo a chi li ottiene − sono connessi in modo contingente (“per circostanze sociali fortuite”): si tratta della posizione sociale, del prestigio e del denaro che una determinata pratica può far acquisire. I secondi, invece, sono i valori strutturali, che si ottengono esercitando l’attività, “sono il risultato di una competizione al fine di eccellere, ma sono caratterizzati dal fatto che il loro conseguimento è un valore posseduto dall’intera comunità che partecipa alla pratica”. Avverte, però, il filosofo che le pratiche abbisognano delle istituzioni − come gli ospedali, i laboratori, le università − perché sono questi che si occupano necessariamente dei valori esterni. “Nessuna pratica può sopravvivere a lungo se non è sostenuta da istituzioni”, chiarisce MacIntyre, per il quale il rapporto fra pratiche e istituzioni “è così intimo che esse formano in modo caratteristico un unico ordine causale”. Scendendo dai rilievi teorici al terreno pratico, c’è il rischio che politiche di sviluppo che trascurino interventi su artigianato, lavoro autonomo e professioni possano anche sostenere l’economia ma senza arrecare ben-essere della collettività.

Non c'è più il lavoro di una volta

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