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Henry Kissinger è noto al mondo per le sue teorie e prassi nel campo delle relazioni internazionali, fondate sull’equilibrio di potere e imperniate su un realismo di cambiamenti graduali. Meno noto è, invece, l’ultimo Kissinger che si esercita come profondo e fine teorico dell’élite. Nel suo ultimo e forse finale libro, Leadership, il grande consigliere del potere analizza sei figure fondamentali del Novecento per poi segnare delle conclusioni che mostrano tutto l’umanesimo e il conservatorismo kissingeriano in materia di educazione politica. Per prima cosa, Kissinger ricorda il valore dell’antica aristocrazia di sangue in politica. È vero che i nobili di un tempo, ottenendo uno status per nascita, erano sulla carta più incompetenti e dilettanteschi dei leader novecenteschi, ma è anche vero che essi avevano due attributi particolari: il primo era un senso del dovere e dell’autocontrollo che era imposto dall’educazione loro impartita. Proprio perché avevano ricevuto per nascita certi diritti, gli aristocratici erano moralmente istruiti a rispettare doveri e responsabilità nei confronti del popolo e della nazione che rappresentavano per rango, e questo spingeva le classi nobiliari a trovare soluzioni politiche negoziali che cercassero punti di equilibrio. Il secondo attributo era che tutte le aristocrazie europee venivano da percorsi e incroci comuni, spesso sovranazionali, e questo milieu favoriva una capacità di mediazione, di dialogo e di risoluzione diplomatica tra uomini che si consideravano di pari ruolo e spesso riuscivano a mettere da parte l’arroganza, la megalomania e ad essere meno influenzati, in epoche non democratiche, dagli umori e dalle pulsioni popolari rispetto ai politici di oggi.

La teoria – tanto cara allo storico americano – dell’equilibrio di potere, venne forgiata proprio dalle aristocrazie presenti al Congresso di Vienna. Dunque, al netto di nepotismi e diseguaglianze radicali, Kissinger ricorda come quell’epoca di aristocratici dilettanti riuscisse a reggersi sullo spirito di corpo nobiliare, sull’educazione all’autocontrollo e alla disciplina, sul rispetto di doveri commisurati alla propria posizione sociale. Tuttavia, la Prima guerra mondiale, cioè il primo conflitto fondato sulla mobilitazione delle masse, mostrerà l’insufficienza delle vecchie classi aristocratiche di fronte alla democrazia a suffragio universale e al capitalismo industriale che sfocerà nella tragedia politica europea consumatasi tra le due guerre. La Grande Guerra aveva eroso la legittimità dell’élite politica, lasciando aperta la porta, nei principali paesi europei, ai rovesci poi imposti dai regimi totalitari. Tuttavia, una volta superate le turbolenze della cosiddetta Seconda guerra dei Trent’anni (1914-45), questa trasformazione sociale, che aveva messo al centro la classe media, si sarebbe rivelata compatibile con la stabilità internazionale e con la capacità di governo. Un mondo di Stati nazionali ancorati ad istituzioni forti, con la borghesia che esercitava la maggior parte del potere politico e culturale, fu in grado di produrre leader, come quelli passati in rassegna da Kissinger, che conducevano una politica responsabile e creativa. E proprio questi leader rappresentano una fase storica ben precisa perché gli statisti del secondo dopoguerra portano la politica in una fase nuova: essi appartengono alla classe media, si sono realizzati tutti attraverso una istruzione dura e competitiva, hanno acquisito competenze e cultura, ma sono stati anche imbevuti di valori quali disciplina, autocontrollo, perseveranza, accuratezza.

De Gaulle, Adenauer, Thatcher e gli altri leader hanno interpretato una era post-aristocratica delle élite politiche che potremmo definire come il tempo della “meritocrazia borghese”, in cui il merito individuale forgiato dai sistemi educativi si sommava con un sistema di valori ben definito. Da qui una nuova aristocrazia, fondata sulla competenza e sul merito scolastico ma anche ancorata alla nazione, animata dallo spirito di servizio e imperniata su doveri e responsabilità verso il proprio Stato e i propri cittadini. Ecco la formula politica di successo delle classi governanti del dopoguerra. Ma Kissinger non si limita soltanto a cristallizzare con chiarezza il passato, quanto a riflettere con profondità sul presente. Ecco allora le preoccupazioni per lo smarrimento di alcuni attributi fondamentali della nuova classe dirigente rispetto a quella emersa dal secondo dopoguerra. Negli ultimi trent’anni, le università si sono concentrate soltanto sulla competenza tecnica emarginando il sapere umanistico che aveva formato gli statisi di successo della generazione precedente, pertanto oggi si genera una élite di soli tecnocrati e attivisti, disancorata dalla nazione e dalla ragion di Stato e informata dal cosmopolitismo globale. Si è persa quella mescolanza tra virtù aristocratiche e ambizioni meritocratiche poiché sono rimaste in vita soltanto le seconde. Ne consegue che il patriottismo civico che un tempo conferiva prestigio al servizio pubblico sembra essere stato messo da parte da un frazionamento identitario e da un cosmopolitismo concorrente con la nazione, con una conseguente rottura tra classe dirigente e popolo tra cui si sono instaurati un reciproco sospetto e ostilità.

Ciò anche perché le università occidentali si sono allontanate dalla loro missione di formare cittadini, tra cui potenziali statisti, per privilegiare tecnici e attivisti con scarso senso del dovere, della disciplina e della responsabilità. Se si vuole costruire una élite capace e misurata, conclude Kissinger, c’è da rinvigorire questa meritocrazia e ciò significa che l’educazione umanistica deve riacquistare il suo significato, abbracciando materie come la filosofia, la politica, la geografia umana, le lingue moderne, la storia, il pensiero economico, la letteratura e forse anche l’antichità classica, il cui studio è stato a lungo il vivaio degli statisti. Soltanto attraverso questo recupero sarà possibile dare linfa a quella che Thomas Jefferson chiamava “aristocrazia naturale”, confluenza di talento e di virtù.

 

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