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“Hamas è l’Isis”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo ripete in ogni occasione dal 7 ottobre, quando Israele ha subito un attacco che per violenze, brutalità e spettacolarizzazioni del massacro ha ricordato le mosse dello Stato islamico. Per Netanyahu è un claim ricorrente, diventato rapidamente un hashtag e ripreso anche da altri politici internazionali – perché parte di comunicazioni con cui su X il premier israeliano condivide video come quello in cui viene dettagliato l’uso di ospedali come basi e protezioni da parte del gruppo terroristico palestinese.

Guidato da un credo apocalittico, trascendente, escatologico si era lanciato in una frenesia di uccisioni, torture, macabre esecuzioni e rapimenti di civili dalle comunità di presunti apostati e nemici. I miliziani del Califfo Abu Bakr al Baghdadi, chiamati soldati di Dio, si muovevano nei territori di conquista come se legittimati per volere diretto di Allah, e per conto del Califfato globale. Le testimonianze di ciò che i combattenti di Hamas hanno fatto nelle città e nei kibbutzim del sud di Israele hanno ricordato quella furia iconoclasta, accecata dall’odio viscerale (probabilmente massimizzato da anfetamine come il Captagon) contro il nemico esistenziale.

“Proprio come le forze della civiltà si sono unite per sconfiggere l’Isis, le forze della civiltà devono sostenere Israele nello sconfiggere Hamas”, ha detto Netanyahu. Una settimana dopo il massacro, anche il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha definito ciò che Hamas ha fatto “peggio dell’Isis”. Martedì, è toccato al presidente francese Emmanuel Macron proseguire sul valore di fondo di questa analogia, suggerendo che una coalizione internazionale come quella che ha combattuto lo Stato Islamico dovrebbe ora impegnarsi contro Hamas.

È lo step successivo (anche se per ora non solo l’implementazione, ma apparentemente manca l’interessamento). Costruire questa analogia serve a creare due tipologie di pensiero: quello tra le collettività, portandole ad accettare più comprensibilmente una contro-reazione violenta (operazione che sta riuscendo parzialmente); quello tra le leadership, collegato, portando alla possibilità di strutturare forme di cooperazione con Israele con l’obiettivo di distruggere Hamas (e i potenziali riflessi del suo gesto sulla scena jihadista globale). Per certi versi qualcosa di simile avviene con l’accomunare Hamas alla Russia, e Israele all’Ucraina: missione comunicativa americana che serve a spiegare ai cittadini il perché di un nuovo rafforzamento mediorientale – dopo che la regione era stato il teatro delle tanto criticate “endless war”, per usare un fortunato termine trumpiano.

Se la visita della leadership del gruppo palestinese a Mosca aiuta quest’ultima narrazione, quella mostruosità sulle vittime, le testimonianze, la disperazione dei famigliari dei rapiti, supportano la similitudine con i baghdadisti. Israele si sta preparando per la prossima fase della sua offensiva contro Hamas, già avviata con operazioni di terra spinte in maggiore profondità: sarà una guerra lunga, dice il governo Netanyahu. L’intenzione dichiarata dal ministro degli Esteri Eli Cohen “cancellare [Hamas] dalla faccia del pianeta”. Sostenere il costo umano – quello della crisi umanitaria e degli incessanti bombardamenti sulla Striscia di Gaza assediata che hanno ucciso 5.791 palestinesi  – non sarà facile, anche sotto le pressioni di un cessate il fuoco umanitario.

Ma anche in questo: come è possibile mediare con un gruppo di terroristi barbari? Nessuno avrebbe mai ipotizzato una mediazione con al Baghdadi. Nessuno dovrebbe farlo con Hamas, è il messaggio dietro all’accomunarlo all’Is – e dal legittimarlo del ruolo di movimento della causa palestinese. D’altronde, sono passati venti giorni dalla strage e i dettagli macabri ancora emergono. Il paragone è diretto, efficace, basico.

Ma gli studiosi del Medio Oriente sostengono che questa retorica appiattisce deliberatamente le forze profonde in gioco. Dire che non c’è distinzione tra Hamas e l’Is è “una tattica efficace per dipingere Hamas, e tutti i gazesi, visto il linguaggio generalizzante di molti leader israeliani , come disumani, irrimediabilmente malvagi e quindi bersagli legittimi della ferocia per rappresaglia”, spiega Monica Marks, docente di politica mediorientale presso il campus di Abu Dhabi della New York University.

Itzchak Weismann, storico israeliano dei movimenti islamisti presso l’Università di Haifa, concorda con questa interpretazione. “Si tende a dire che [Hamas] è sempre stato l’Isis. Ma non è necessariamente vero. È un’organizzazione che risponde alla situazione”, ha spiegato su Haaretz, un giornale di opposizione molto critico con Netanyahu. Per esempio, ricorda Weismann, Hamas – che appartiene a un credo sunnita diverso da quello baghdadista – ha accettato la presenza anche nella Striscia di altri gruppi minoritari religiosi, e cercato di essere inclusivo nei confronti di tutta la popolazione di Gaza. Al contrario, l’Is ha dato prova di considerare takfiri, infedele e non degno di vivere, ogni musulmano che non rispetta i dettami del Califfo. “Non si può semplicemente dire: ‘L’Is ha massacrato delle persone e anche Hamas, quindi sono uguali’. È molto superficiale”, commenta il docente.

Per l’Is, anche Hamas è apostata, perché connesso al fronte della resistenza costruito dai Pasdaran, dunque collegato al nemico esistenziale sciita del Califfato. Inoltre, per lo Stato islamico i gruppi palestinesi sono sempre stati inferiori, considerati inquinati dalla loro visione ultra-locale e nazionalista, mentre l’Is è una realtà che aspira a essere assoluta e globale. Il Califfato doveva (deve nell’aspirazione di chi ancora è parte del gruppo) essere la casa di tutti i musulmani del mondo. Il culto nichilista alla base dell’ideologia baghdadista ha cercato di prendere vantaggio su Hamas, provando a infiltrarsi tra i palestinesi in passato.

Ora, il rischio è anche che nella fase di radicalizzazione spinta che un’operazione di terra totale potrebbe portarsi dietro, il paragone con l’Is finisca per fare il gioco dei baghdadisti, che potrebbero capitalizzare proseliti e infiammare ulteriormente il fronte interno israeliano.

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