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Nel cuore dell’Europa esiste un’area in cui la stabilità è un’illusione, la sovranità è ambigua, e la geopolitica si gioca a bassa intensità ma ad alta pressione. È la penisola balcanica, crocevia di interessi divergenti, memoria di guerre recenti e terreno fertile per il ritorno delle influenze globali in uno spazio apparentemente secondario. Ma nulla è marginale nei Balcani, tanto più in un momento in cui la competizione strategica tra blocchi si gioca anche nei “vuoti” lasciati dalla disattenzione occidentale.

La narrazione ufficiale presenta i Balcani occidentali come “vicini prossimi” dell’Unione europea. Ma la realtà è ben diversa: la regione è ancora oggi una terra di confine fluida e porosa, sospesa tra integrazione formale e tensione permanente. Un confine che respira, instabile, alle porte del Friuli-Venezia Giulia, dove inizia la Slovenia (già membro dell’euro e pienamente integrata nel sistema europeo) ma che confina con aree dove l’identità statale è ancora ambigua, come la Bosnia-Erzegovina o il Kosovo.

Le crisi in Kosovo, le tensioni interetniche in Bosnia, la fragilità politica in Macedonia del Nord e Montenegro, sono la prova di un processo di stabilizzazione mai veramente completato. La promessa di integrazione europea, ripetuta negli anni come un mantra, si è logorata: l’allargamento è fermo, la credibilità dell’Unione europea in calo, e le società balcaniche sempre più disilluse.

Accanto alle fratture politiche e istituzionali, le tensioni religiose continuano a giocare un ruolo sotterraneo ma incisivo nella definizione delle identità e delle appartenenze. Nei Balcani, religione e nazione si sovrappongono: essere serbo è essere ortodosso, essere bosniaco è essere musulmano, essere croato è essere cattolico. Questo intreccio rafforza la logica di blocco e la diffidenza reciproca, rendendo più difficile ogni progetto federativo o inclusivo.

Non si tratta di conflitti teologici, ma di codici culturali e simbolici profondamente radicati, che influenzano la politica, l’istruzione, l’uso dello spazio pubblico e persino i rapporti con l’esterno. Le Chiese, e in particolare la Chiesa ortodossa serba, mantengono un ruolo attivo nel sostenere posizioni nazionaliste o identitarie, mentre in Bosnia e in Kosovo le reti religiose musulmane, talvolta finanziate da attori esterni come la Turchia o Paesi del Golfo, contribuiscono alla costruzione di un immaginario culturale autonomo.

Questa stratificazione identitaria e religiosa alimenta una percezione costante di vulnerabilità tra le comunità, e rappresenta un ostacolo concreto ai processi di riconciliazione e di costruzione di una cittadinanza condivisa.

Questa situazione genera spazi strategici aperti a potenze esterne: dove l’Europa porta condizionalità e tecnocrazia, altri portano investimenti, infrastrutture e – soprattutto – una narrazione coerente con l’aspettativa locale di rispetto, identità e sviluppo rapido.

Oggi i Balcani sono al centro di una competizione multipolare silenziosa. La Turchia espande la propria influenza culturale e religiosa nei Paesi a maggioranza musulmana (Bosnia, Albania, Kosovo), con un soft power fatto di moschee, scuole e opere pubbliche. La Cina entra con capitali e grandi opere infrastrutturali, soprattutto in Serbia e Montenegro, nel quadro della Belt and Road Initiative. La Russia, da parte sua, gioca una partita ibrida: influenza mediatica, diplomazia parallela e un forte sostegno alla Serbia e alla Republika Srpska, per minare la coesione regionale e bloccare l’espansione della Nato.

Questa presenza esterna convergente ma competitiva sta trasformando i Balcani in una zona cuscinetto frammentata, dove ogni attore internazionale cerca di guadagnare spazio in una partita di lungo periodo, spesso sottovalutata dalle cancellerie europee.

L’Unione europea resta il partner commerciale principale della regione e il primo donatore. Ma non è percepita come potenza strategica. La sua presenza è burocratica, condizionata, lenta. La promessa dell’allargamento — ripetuta, mai realizzata — rischia di perdere definitivamente forza persuasiva. La mancanza di una visione politica dei Balcani si traduce in una marginalizzazione autoindotta, lasciando campo libero a narrative alternative e a leadership ostili.

L’Europa parla di “valori”, ma la regione chiede infrastrutture, investimenti, accesso ai mercati, mobilità. La distanza tra retorica e realtà si allarga, e con essa la disillusione di intere generazioni che vedono nell’Unione un club esclusivo più che un progetto condiviso.

L’Italia non può permettersi di ignorare ciò che accade nei Balcani. La vicinanza geografica — diretta, attraverso il confine orientale con la Slovenia — implica che ogni destabilizzazione nella regione ha effetti diretti su di noi: in termini di sicurezza, migrazioni, traffici illeciti, ma anche nella capacità di proiezione economica delle nostre imprese nel Sud-Est europeo.

Inoltre, in un contesto globale dove le infrastrutture strategiche (porti, reti energetiche, trasporti) diventano strumenti di influenza, l’Italia deve evitare che gli spazi balcanici diventino appendici di progetti egemonici altrui: turchi, russi o cinesi.

I Balcani non sono una periferia. Sono un confine vivo dell’Europa, e come ogni confine raccontano più di ogni altra cosa l’equilibrio reale delle forze politiche e strategiche in gioco. La fluidità dell’area è tanto un rischio quanto un’opportunità: l’Europa – e l’Italia – possono ancora giocare un ruolo centrale, ma serve una nuova dottrina strategica, meno moralista e più realista. Con investimenti, visione e presenza.

Perché nei Balcani, come spesso accade nella storia, la posta in gioco è più alta di quanto sembri.

(Foto: screenshot, NASA World Wind)

Balcani, il confine inquieto d’Europa. L’analisi di Volpi

Di Raffaele Volpi

Le crisi in Kosovo, Bosnia, Macedonia del Nord e Montenegro dimostrano una stabilizzazione incompleta. Le identità religiose e nazionali si intrecciano complicando la riconciliazione. Potenze esterne come Turchia, Cina e Russia stanno guadagnando influenza. L’Ue, vista come burocratica e lenta, perde forza persuasiva e lascia spazio a narrative alternative. L’analisi di Raffaele Volpi

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