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Il secondo dopoguerra ha registrato uno spettacolare progresso economico del nostro Paese e i principi ispiratori scritti nel Codice di Camaldoli hanno giocato un ruolo non indifferente. Il miracolo principale a mio avviso è stato però nella capacità di distribuire i benefici della crescita del reddito pro-capite a una quota vastissima della popolazione, creando una robusta classe media. Tutto questo ha garantito stabilità politica e coesione sociale, nonché il sostegno di consumi di massa alla crescita dell’economia. Si tratta di realizzazioni tutt’altro che scontate se pensiamo alla storia di molti Paesi latinoamericani dove la carenza di questo processo di redistribuzione ha avuto incidenze profonde sui conflitti civili e sulla stessa stabilità dei regimi democratici. La stessa crisi finanziaria globale ci insegna oggi che la lezione sembra essere stata dimenticata in una società concentrata solo sul rendimento dell’azionista e non sul problema distributivo che genera il paradosso di minare le sue stesse fondamenta. Uno dei dati più interessanti di questa crisi è quello mostrato da Picketti e Saez che illustrano l’andamento ad U della quota di reddito posseduta dall’1% degli americani più ricchi.
 
I due picchi di questo valore (entrambi attorno al 25%) sono realizzati proprio in occasione delle due crisi finanziarie del ‘29 e del 2009. Ergo, un sistema economico che si fonda sui consumi di massa non regge quando la diseguaglianza supera il livello di guardia.
Nel Codice di Camaldoli traspare invece quella “passione per gli ultimi” che, oltre ad essere una molla fondamentale per l’operosità umana, è un anticorpo importante per garantire la salute delle democrazie e mantenere la coesione sociale (“Finché nella società ci siano dei membri che mancano del necessario, è dovere fondamentale della società provvedere; sia con la carità privata, sia con le istituzioni di carità private, sia con altri mezzi, compresa la limitazione della proprietà dei beni non necessari, nella misura occorrente a provvedere al bisogno degli indigenti”).
 
Da questa tensione ideale scaturiscono strategie politiche concrete che porteranno attraverso le varie tappe della riforma agraria alla creazione di una vasta classe di coltivatori diretti e, attraverso il metodo della concertazione tra governo, industria e sindacati, alla creazione di un proletariato in grado di raggiungere livelli di benessere decenti che sosterranno i consumi e lo sviluppo del Paese.
Sulla scia di quest’ispirazione troviamo tra i grandi valori che devono ispirare l’attività economica “l’eguaglianza dei diritti di carattere personale, nonostante le profonde differenze individuali, provenienti dal diverso grado di intelligenza, di abilità, di forze fisiche, ecc.” che prelude al concetto di pari opportunità attraverso il quale ci si pone l’obiettivo che le condizioni di partenza non siano un ostacolo nella realizzazione delle proprie potenzialità. Troviamo ancora un ideale alto come quello de “la destinazione primaria dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini”.
Interessanti anche le considerazioni relative all’importanza di non scendere al di sotto di un salario minimo di sussistenza, pur nel riconoscimento realistico della difficoltà di fissare dei livelli indipendenti dalle circostanze e dalle congiunture.
 
Di strettissima attualità in un’economia mondiale devastata dalla crisi finanziaria globale nella quale si confondono i profitti di alcuni grandi gruppi con il benessere di tutti, le considerazioni espresse dal Codice per le quali: “La proprietà dei beni capitali, per la sua delicata funzione sociale, non può essere sempre usata secondo il solo giudizio del proprietario, ma in armonia con le esigenze di un sistema economico tendente al bene comune, fissato da chiare norme giuridiche”.
In sostanza secondo gli autori del Codice di Camaldoli: “La vita sociale è perciò sorretta dalla duplice legge della giustizia e della carità: della giustizia per la quale l’individuo è tenuto a riconoscere, garantire, promuovere il suum degli altri individui e dei gruppi e cioè la vita, la dignità, la libertà, la possibilità del compimento del proprio destino di ognuno, e della carità”.
Ciò che colpisce di più nella lettura (e ci fa comprendere la strada che abbiamo percorso) sono le considerazioni relative al problema dei migranti. L’Italia è a quel tempo un Paese di migranti e dunque ci si preoccupa di “dare agli emigranti la necessaria protezione durante il loro esodo” e “di favorire le rimesse e sicuri collocamenti in patria dei loro risparmi”.
 
La lezione di quella stagione che molti paiono ignorare è che questi anticorpi solidali sono stati fondamentali per realizzare equilibrio di poteri, stimolare energie produttive e canalizzarle verso un obiettivo in grado di contemperare crescita economica, redistribuzione e coesione sociale.
Mentre in quel contesto la realizzazione dei principi passava attraverso un riequilibrio tra ricchi e poveri all’interno del nostro Paese, oggi lo stesso processo si deve realizzare nello scenario globale. Pena il nostro arretramento e la perdita delle conquiste sociali che proprio quella stagione ci ha aiutato a realizzare. È impressionante riscontrare che esattamente gli stessi ideali e principi hanno ispirato oggi le iniziative di economia solidale attraverso le quali i cittadini responsabili affrontano le nuove sfide: non l’accompagnamento dei nostri migranti all’estero, ma l’accoglienza di quelli che arrivano nel nostro Paese; non il salario minimo dei nostri, ma quello dell’“esercito di riserva” della massa di diseredati dei Paesi poveri che nella globalizzazione diventa minaccia formidabile ai diritti dei lavoratori del nostro Paese.
È come se la globalizzazione avesse scombinato l’opera meticolosa e paziente realizzata all’interno di un solo Paese e ci ponesse oggi la sfida di raggiungere lo stesso obiettivo in ambito mondiale. Possiamo vincere la sfida solo se riusciamo a fare un salto di qualità comprendendo che il perimetro è cambiato e considerando loro come noi. Non abbiamo d’altronde altra scelta perché lo scherzo che ci fa la globalizzazione è quello di legare indissolubilmente i nostri destini.

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