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Perché la bellezza? Dinanzi alle catastrofi ambientali e alle violenze inaudite che stiamo vivendo, parlare di bellezza può sembrare provocatorio, se non scandaloso. Si tratta in effetti di una sfida. Il festival ci invita a provare a pensare ad un’idea della bellezza diversa da quella banalizzata, confinata nel futile e nell’effimero o, viceversa, canonizzata nelle immagini della classicità: un’idea di cui oggi più che mai abbiamo bisogno. Ma per questo occorre innanzitutto riattivare l’immaginazione partendo ad esempio, dall’idea che la bellezza si trovi ovunque ci sia visione, utopia, in altre parole, l’intuizione progettuale di un mondo possibile.

Siamo chiamati a riscoprire la meraviglia di tutto quanto ci circonda, a ripensare innanzitutto al nostro rapporto con la natura che ci mostra la sua bellezza ferita, a rimediare ai danni che le abbiamo inflitto, il che richiede, appunto, capacità di progettazione e creatività. Prima ancora di pensare razionalmente, la nostra mente funziona tramite l’immaginazione: quando pensiamo, diceva già Aristotele, lo facciamo sempre a partire da immagini.  Ce lo ricorda la filosofa Chiara Bottici in La politica dell’immaginazione. Vivendo in quella che è stata definita “civiltà dell’immagine” la politica stessa non è più separabile dall’incessante flusso di immagini, post e like che invadono i nostri schermi. Per questo dovremmo iniziare a comprendere cosa significhi in questo contesto “potere” per indagare le possibilità che si aprono rispetto alla politica del passato.

A sua volta Jane Bennett, una delle voci più autorevoli dell’ecosofia contemporanea, in Materia vibrante, ci invita ad estendere la teoria politica oltre al dominio dell’umano per coltivare politiche più responsabili ed ecologicamente sostenibili. Occorre, a suo avviso, tornare ad osservare il mondo con lo sguardo incantato dell’infanzia e ad aprirci alla meraviglia di un universo molto più vivo di quanto avessimo finora sospettato. Seguendo questa prospettiva, ritengo che la bioetica possa rappresentare un punto d’osservazione privilegiato: la complessità del suo sguardo su diversi ambiti – umano, ambientale, animale – potrebbe darci infatti la possibilità di scoprire modi diversi di relazionarci col mondo che abitiamo. Tutto starà al modo in cui, uscendo dal modello antropocenico, concepiremo la nostra co-esistenza con animali, piante, foreste, – tutto quello che definiamo come l’altro da noi. In questo quadro la sfida dei prossimi anni sarà di tenere insieme scoperte scientifiche, nuove tecnologie e bellezza.

In un mondo come il nostro in cui la scienza e la tecnologia svolgono un ruolo di grande rilievo per le nostre vite, diventa quindi sempre più importante acquisire conoscenze in ambiti specialistici, dall’ecologia all’etologia, dalla biologia alla genetica, dall’intelligenza artificiale alle neuroscienze. Nella consapevolezza del legame profondo tra scienza e bellezza, se non della loro comune origine, ben evidenziata dalle parole di Einstein “Il sentimento che sta alla base della vera arte e della vera scienza è il mistero della vita” e, quasi a chiarimento, “lo studio e la ricerca della bellezza rappresentano una sfera di attività in cui è permesso di rimanere bambini per tutta la vita”.

Molte sono le questioni su cui il festival ci invita a riflettere. Tra queste: come si configura il mito del bello nei social network? Quali le nuove estetiche del corpo? È stato detto che oggi viviamo nell’era della spettacolarizzazione del corpo e si parla comunemente di “vetrinizzazione sociale”. Ma cosa significa vivere in vetrina? La nostra si viene sempre più configurando come una società dell’iconomania in cui l’individuo è innanzitutto homo videns che da spettatore/consumatore dei media tradizionali si trasforma in attore/consumatore della propria esistenza massmediatica. Potremmo in certo modo dire che non esistere massmediaticamente significa non esistere socialmente. La stessa pratica del selfie pone molti interrogativi circa i processi di costruzione dell’identità personale nel suo rapporto con la bellezza.

Occorre aggiungere che, dal momento che la categoria del bello, come viene intesa nell’ambiente digitale, è legata al numero di condivisioni ottenute, le immagini con più alto grado di riconoscimento on line mostrano un notevole conformismo estetico, contraddistinto da una forte adesione a canoni di bellezza irreali per cui ogni tratto imperfetto deve essere modificato o rimosso. Il risultato è una tendenza sempre più spiccata verso l’omologazione che esige determinati requisiti: lineamenti perfetti, fisici scultorei, visi levigati. L’adesione a questi parametri estetici non si limita tuttavia solo alla manipolazione della propria immagine virtuale ma può inclinare verso il sempre più frequente ricorso alla chirurgia estetica e spesso al suo abuso anche da parte di persone molto giovani. Lo segnalano i dati forniti dall’International Society of Aesthetic Plastic Surgery secondo cui il nostro è il quinto paese al mondo per numero di interventi. Sulla crescente spettacolarizzazione della bellezza tra natura e artificio, psicologia, sociologia, medicina, chirurgia estetica, filosofia, antropologia sono chiamate a rispondere nel dialogo interdisciplinare che caratterizza la bioetica fin dalle sue origini.

Al centro dei lavori del festival nella seconda giornata sarà il dibattito su cosa significhi concretamente lavorare per un mondo bello, a partire dall’art.9 della nostra Costituzione che ha introdotto, tra i principi fondamentali, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi e, per la prima volta, degli animali. Sempre più spesso si parla – all’interno della filosofia ambientale – dell’esperienza della bellezza come tramite privilegiato per avviare un’etica del rispetto per la natura. Oggi abbiamo a che fare con paesaggi degradati, deturpati innanzitutto nelle loro qualità estetiche, traditi da un’edilizia sconsiderata nella rottura di quell’equilibrio tra armonia naturale e interventi umani che li aveva caratterizzati per secoli.

Quali le possibili risposte? Occorre certo porre un freno al consumo del suolo per non aggravare situazioni già compromesse, vietare condoni o sanatorie nelle zone a rischio, ma soprattutto è indispensabile avviare una cura attenta del territorio. Ciò comporta non interventi irrealistici ma, come avverte Renzo Piano, piani di lunga durata di “rammendo” idrogeologico e boschivo, recuperando una cultura ancestrale che si è andata perdendo. Nell’immagine bellissima del “rammendo” ritroviamo uno dei temi più significativi di quell’etica della cura, al centro dell’ecofemminismo, che mira a custodire, mantenere e riparare il mondo in cui viviamo. In nome della cura la congiunzione tra etica ed estetica si riferisce anche al nostro rapporto col mondo animale.

Uno dei problemi più urgenti oggi in ambito bioetico è quello delle cosiddette “razze sofferenti” che riguarda non soltanto gli animali destinati all’alimentazione – sistematicamente trasformati in macchine produttrici di cibo e geneticamente imbruttiti per assicurare la massima produttività – ma anche gli animali familiari, in particolare talune razze canine, i cosiddetti “designer dogs”, sottoposti a manipolazioni e a interventi genetici per “abbellirli”, e cioè per ottenere caratteristiche considerate piacevoli, che provocano tuttavia non solo gravi sofferenze ma anche malattie croniche e degenerative. Da qui la necessità di nuove regole per nuovi abusi, in una visione della giustizia che – come ci ricorda Martha Nussbaum – per essere veramente tale non può non riguardare anche le altre specie, estendendosi oltre i confini dell’umano.

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