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Le patrimoniali sono come le ciliegie: una tira l’altra. E siccome l’Italia ci ha preso gusto da tempo, non passa giorno senza che qualche tele-personaggio proponga una nuova tassa patrimoniale, come se quelle esistenti non fossero tali o fossero solo finte esercitazioni cartacee. Eppure, a prestare ascolto agli aedi dell’imposizione straordinaria a oltranza, parrebbe di capire che la Penisola non sia il quarto Paese più tartassato del pianeta e che, invece, lo Stivale sia il classico scandaloso paradiso fiscale: il tutto nel segno del liberismo, o neoliberismo, più sfrenato e assoluto.

Come possa un Paese, che ogni anno destina alla fiscalità generale la metà della ricchezza prodotta, continuare a definirsi liberista rimane, francamente, un mistero insoluto, un indovinello indecifrabile per i comuni mortali. Come possa un Paese, che scoraggia e penalizza fiscalmente il merito individuale e la crescita personale, essere assimilato alle zone franche caraibiche è roba da alta, raffinata enigmistica. Eppure, la “narrazione”, come si usa dire oggidì, non ammette dubbi o contestazioni. L’Italia è il Paese più liberista e (perciò) disuguale del globo. Di conseguenza merita di essere allineato e parificato, come il letto di Procuste, da una patrimoniale dopo l’altra.

Neppure la scienza dei numeri che, ricorderebbe qualche pensatore del passato, resta pur sempre la materia che ha maggiore attinenza e confidenza con la verità, riesce a scuotere vulgate più stabili di una piramide egizia e più longeve di un pregiudizio. Eppure i numeri parlano chiaro. Circa la metà della popolazione italiana di fatto non ha rapporti col fisco, e solo una minoranza di cittadini contribuisce al gettito tributario, pagando sanità e istruzione anche per quei furbi lesti a farsi inserire nelle fasce esentate dagli appuntamenti impositivi. Il che sta a significare che, comunque, annualmente, una minoranza del Paese versa un fiume di soldi a beneficio della maggioranza del Paese. Una redistribuzione che, se davvero obbedisse a criteri e pratiche di equità, avrebbe risolto o ridimensionato da lunga pezza la questione delle disuguaglianze.

Invece, quasi sempre accade il contrario. Vale a dire che a pagare siano solo i ricchi ufficiali e che molti ricchi veri si nascondano, ricavandone benefit diretti e benefìci indiretti, nell’elenco degli indigenti o dei meritevoli di sostegno. Una sorta di patrimoniale rovesciata, sulla falsariga della patrimoniale rovesciata sperimentata con il bonus del 110% per le ristrutturazioni edilizie. Una patrimoniale al contrario, quest’ultima, di cui ovviamente hanno potuto usufruire anche molti evasori proprietari di immobili.

Non sappiamo come sarà in dettaglio la riforma fiscale di imminente presentazione. Ci auguriamo solo che riduca scorciatoie e scappatoie per i numerosi furbetti del quartierino che gravano sulla platea dei contribuenti vessati. Ci auguriamo solo che prenda esempio dai modelli che combattono gli infedeli (al fisco) puntando sul contrasto di interessi tra i contribuenti. Ci auguriamo solo che anteponga gli automatismi alle procedure discrezionali. Se non saranno queste le linee guida del provvedimento, vorrà dire che non sarà cambiato nulla e che il Paese seguiterà a dividersi tra quanti invocano la patrimoniale dalla mattina alla sera e quanti ritengono che solo la categoria sociale di appartenenza sia degna di benevolenze da parte del Grande Fratello tassatore.

Non è vero, come sostengono gli aficionados della patrimoniale, che in Italia si paghino poche tasse. Ne pagano poche gli imboscati di ogni genere, dagli autonomi che ignorano la fatturazione fiscale ai dipendenti che arrotondano in nero attraverso il secondo o il terzo lavoro. Il resto della popolazione, purtroppo per lei, viene rapato dal fisco assai più del dovuto. E, cosa davvero beffarda, cotanta solidarietà (imposta) non è premiata – come già lamentava la buonanima di Ugo La Malfa (1903-1979) – da servizi pubblici di tipo scandinavo, semmai è mortificata da servizi pubblici di genere sudamericano.

Ecco perché fa sorridere l’insistenza con la quale si invoca la patrimoniale come toccasana di tutte le sperequazioni italiane. Non già perché questa forma di prelievo sia inaccettabile (la patrimoniale comporta il vantaggio di tassare (almeno in teoria) le proprietà, le rendite e i risparmi di onesti e disonesti. Ma perché a furia di patrimoniali non precedute da un più indispensabile riequilibrio del carico tributario tra contribuenti virtuosi e contribuenti virtuali si rischia di allungare in eterno l’esistenza di un modello fiscale più ingiusto di uno scambio di persone. Per non ripetere, come accennato all’inizio, che l’Italia sa già il fatto suo, avendo dato abbastanza, in materia di patrimoniali e che non sarebbe proprio il caso di insistere, visto che errare è umano, ma perseverare è diabolico.

Conclusione. Di tutto avrebbe bisogno il Belpaese tranne che di un aumento della pressione fiscale. Non solo perché un ulteriore aggravio andrebbe a colpire i soliti noti, ma anche perché, paradossalmente, sulla base dell’esperienza passata, l’aggravio contribuirebbe ad aumentare le disuguaglianze economiche, altro che attenuarle, alla luce dell’alta percentuale di signori esentasse. Servirebbe un’opera di riequilibrio del peso tributario, ma questa manovra non sarebbe indolore per milioni di persone. Ed elettoralmente parlando sarebbe assai rischiosa per chi se ne intesterebbe la paternità.

L’ossessione della patrimoniale come toccasana. Il commento di De Tomaso

Servirebbe un riequilibrio del carico fiscale, non un aumento della tassazione che produrrebbe effetti paradossali anche nella lotta alle disuguaglianze. La riforma deve anteporre gli automatismi alle discrezionalità

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