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Mario Verdone

(…)
Possiamo definire “neorealismo cinematografico” il movimento creativo, fiorito in Italia attorno
alla seconda guerra mondiale, il quale, basandosi sulla realtà e vedendola con semplicità e coralmente
ma criticamente, interpreta la vita com’è e gli uomini come sono.
(…)

Carlo Verdone

(…)
Prendiamo Ladri di biciclette. È la storia di una bicicletta rubata, avviene tutto in un giorno, di domenica.
Un padre con un bambino alla ricerca della bicicletta, il tentativo finale del furto, il padre catturato dalla folla, il bambino che lo consola salvandolo dal linciaggio.

Beh, fu un grande film. Un film capolavoro. Un’o- pera che negli anni ha avuto il successo che si meritava. La grandezza di questo film, come di altri, era di non prendere generici di professione, ma gente dalla strada. A uno, se aveva la faccia giusta, gli facevi fare il contrabbandiere; a un altro gli facevi fare il ricettatore, a un altro ancora il prete; a un altro un cameriere in una trattoria. Sul telone era tutto così vero. (…)

E qui entra in campo il talento della regia di attori.

Infatti. E siccome ogni gesto, ogni espressione era autentica il regista doveva cogliere l’attimo. E De Sica è stato un grande, un immenso direttore di attori. E, soprattutto, regista di attori “presi dalla strada”, come subito si disse. Era in grado di tirar fuori da uno sconosciuto che non aveva mai reci- tato le espressioni e i gesti del personaggio che gli veniva affidato: pensiamo a un Lamberto Maggiorani o a un Enzo Stajola (il bambino), due grandi interpretazioni. Il padre, alto, emaciato, magro, tormentato. Sul suo volto non si vedrà mai un sorri so in tutto il film.

De Sica sapeva dirigere soprattutto i bambini…

Ricordiamoci la scena bellissima del bambino al ristorante popolare. Di fronte al tavolo dei protago nisti, padre e figlio [Maggiorani e Stajola, N.d.C.], c’è una famiglia piccolo borghese. In questa vediamo un bambino, rubicondo, più grassottello, che mangia con tono di sfida un supplì con la mozzarel la filante, addirittura con un atteggiamento d’innocente disprezzo verso il povero protagonista. Una scena meravigliosa. Un altro attore non professionista, utilizzato felicemente da De Sica nel ruolo del pensionato protagonista di Umberto D., fu il professore universitario Carlo Battisti, docente di linguistica. Assolutamente sconosciuto nel mondo del cinema, non era un attore. A De Sica piaceva la faccia. Insomma, una caratteristica fondamentale del neorealismo era andare a cercarsi le facce per le strade. Poi il resto al talento del regista: far diventare quel volto, quell’andatura, il personaggio che l’autore ci aveva visto dentro.

Di Battisti c’è quella bella scena al Pantheon quando allunga la mano per chiedere l’elemosina e poi si vergogna…

…e gira il palmo della mano in basso facendo finta di vedere se sta piovendo. Film, purtroppo, sempre attuale, se pensiamo alla situazione della maggioranza dei pensionati di oggi.

Luca Verdone

Da dove inizia, per lei, il realismo o il neo-realismo di Roberto Rossellini?

Beh, sicuramente dai film del periodo 1941-1943, come ci ricordano gli storici del cinema. Da La nave bianca (1941), passando per Un pilota ritorna (1942) sino a L’uomo dalla croce (1943), quest’ultimo sui cappellani durante la ritirata dalla campagna di Russia. Tra questi La nave bianca (1941) è quello che più mi prende. È la storia di un marinaio fuochista, Augusto, ferito durante un attacco del nemico e ricoverato, successivamente, su una nave – -ospedale insieme ai suoi compagni, anch’essi in convalescenza. L’infermiera che li assiste è in realtà la madrina per corrispondenza di Augusto, la lo individua per via della medaglietta che porta al collo, da lei inviatagli durante la corrispondenza. (…) Per quanto sia un film di guerra vediamo l’utilizzo del reale per fini psicologici e non propagandistici. Rossellini sa far parlare il mondo esterno che rimanda sempre al mondo interiore dei personaggi. La storia di guerra gli servì, ovviamente, per raccontare il mondo oggettivo, che non era più quello che si vedeva nelle sale durante il ventennio, ossia il cinema dei telefoni bianchi, dove tutto era leccata scenografia e storie improbabili.

La regia di La nave bianca è molto plastica. Panoramiche, carrelli, montaggio rapido nella sala macchina quando la nave subisce il bombardamento con il conseguente ferimento del fuochista Augusto. Tutto al servizio di una cifra anche documentaristica…

Sì, fin dai suoi esordi di regista di film a soggetto Roberto Rossellini usa la camera per raggiungere una estetica del realismo, a mio avviso sul modello di Jean Renoir. Questo suo realismo, che poteva essere tronfio, ridonante, visto il contesto storico e il genere del film propagandistico. ossia di regime, si presenta sempre asciutto. Sa muovere la camera nei momenti drammaturgicamente richiesti dalla sceneggiatura. Si vedano le delicate panoramiche sui marinai nel loro tempo libero, mentre aspet tano l’attacco: chi legge, chi recita poesia per la sua amata, chi scherza, chi è silenzioso, appunto il fuochista innamorato. psicologici e non propagandistici. Rossellini sa far parlare il mondo esterno che rimanda sempre al mondo interiore dei personaggi. La storia di guerra gli servì, ovviamente, per raccontare il mondo oggettivo, che non era più quello che si vedeva nelle sale durante il ventennio, ossia il cinema dei telefoni bianchi, dove tutto era leccata scenografia e storie improbabili.

L’osservazione del reale, l’uscita nelle strade, prende forma più completa con Roma città aperta (1945), un capolavoro. La storia si ispirava a fatti veri. Uno dei protagonisti, don Pietro Pappagallo per esempio, era un prete che aveva nascosto ebrei e antifascisti, faceva documenti falsi per salvare le persone. Fu ucciso dai nazisti…

Sì, il soggetto ebbe origine su questi fatti di cronaca e storia, cui lavorano gli sceneggiatori Alberto Consi- glio (a lui si deve il primo soggetto sul personaggio di don Pappagallo), Sergio Amidei, Federico Fellini e naturalmente Rossellini. Roma città aperta fu realizzato con mezzi di fortuna, usando la pellicola contro- tipo. Tutti davano una mano nella realizzazione. Va ricordato che le riprese iniziarono nel gennaio del 1945, il Nord Italia era ancora sotto il nazifascismo, il 25 aprile doveva ancora arrivare. I mezzi a dispo sizione erano pochi. Si girava anche di notte “pren dendo”, verbo che è un eufemismo, la corrente dalla redazione del quotidiano Il Messaggero. Nel film si raccontavano fatti accaduti e il realismo non solo era storia di tutti i giorni, era anche lo stile di esse- re nelle strade, negli esterni, di recitare seguendo l’improvvisazione. Anche grazie ad attori duttili che provenivano dal varietà e dal cinema popolare, come Anna Magnani e Aldo Fabrizi.

****

Scrive Eusebio Ciccotti:

Il professor Verdone, una volta l’anno, ripeteva ai nuovi studenti, senza enfasi: “il cinema è la logica conclusione di tutte le arti”. La frase era di Vladimir Majakovskij, posta da Verdone a esergo nel ricordato La cultura del film. Majakovskij un poeta, un autore di teatro, parlava di cinema già nel 1913! Chi lo avrebbe mai immaginato. Nel 1977, quale collega-studente poteva esibire tali citazioni, da noi, fatte subito proprie?

Quel professore, che da un’inquadratura di un film ti faceva viaggiare tra le arti, dalla dizione chiara (con leggero accento toscano), riservato, empatico, pronto all’osservazione vivace, anche alla risata, disponibile alle nostre curiose domande, mise tanto amore e cultura nella didattica che in due anni, da otto studenti, l’auletta si riempì. Posti a sedere sul pavimento.

Ora, nel curare questo volumetto Treccani, mi sono tornate negli occhi e nelle orecchie alcune clip di quelle indimenticabili lezioni di cinema e arti comparate (che altri studenti hanno goduto in quel periodo o subito dopo: Daniele Luchetti, François Proia, Giancarlo Concetti, Fabio Segatori, Roberto Di Vito), sequenze che rivedo negli scritti sul neorealismo. I testi storico-critici di Verdone sono affascinanti percorsi “nei boschi narrativi”, direbbe Umberto Eco, e noi aggiungiamo “del cinema”: con sentieri, anche paralleli, che conducono in altri boschi e, a loro volta, boschi intrecciantisi tra di loro. Sono, appunto, testi di “arti comparate”, con al centro il testo filmico.

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