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Si avvicina il 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo, e puntualmente, da anni, la politica italiana si riaccende come un falò. Un tempo il fuoco della polemica divampava tra antifascisti e filofascisti. Ora scalda i muscoli verbali di tutti: dei pochi nostalgici, dei molti antifascisti, di qualche anti-antifascista e di parecchi revisionisti. Non c’è verso di affrontare sine ira et studio, come avrebbe detto il grande storico latino Tacito, la questione e il lascito del Ventennio, i cui più persistenti e più perduranti effetti negativi spesso non figurano nelle analisi più dibattute.

Diciamo che tra le perversità più sottostimate prodotte dal fascismo figura senz’altro l’idea che un partito possa e debba occupare lo Stato senza particolari cautele, bensì con iattanza e arroganza. Un atteggiamento, quello dell’occupazione di tutte le caselle pubbliche che, successivamente, bisogna riconoscerlo, incontrerà imitatori anche nei settori della Repubblica più lontani dal passato regime. Che cos’è stata e cos’è, ancora oggi la lottizzazione partitica esasperata, dal centro alla periferia, se non la prosecuzione, parcellizzata, dell’infeudamento della Penisola già teorizzato e realizzato da Palazzo Venezia? Del resto, il Duce andava fiero del termine totalitarismo, da lui abbinato al fascismo e da lui inteso come la sottomissione completa di ogni persona allo Stato (tutto per lo Stato, nulla contro lo Stato). Che poi significava e significa sottomissione assoluta al padrone del momento. Fino all’annullamento individuale finale.

Purtroppo, i conti con il fascismo e i suoi disastri non hanno mai superato il recinto delle schermaglie ideologiche. I fatti sono stati sovente trascurati, così come i relativi retaggi. Alcuni esempi. Non solo gran parte dell’impianto dell’ordinamento giuridico e giudiziario è sopravvissuta alla fine del dispotismo mussoliniano, non solo la spartizione del potere nell’Italia repubblicana non si è distanziata di molto dalla vecchia cupidigia del potere, stavolta in nome del “primato della politica”, cioè del partito, cioè del suo leader, cioè della sua nomenklatura, ma anche sul piano delle scelte ordinarie, più legate alla quotidianità, il dottrinarismo ha finito per piegare il pragmatismo, ossia la tirannia in camicia nera ha lasciato tracce di sé anche nella seguente organizzazione democratica.

Prendiamo il caso del problema dei problemi che affliggono l’Italia: il sottosviluppo di larga parte del Mezzogiorno. Il fascismo si è sempre vantato di avere avviato a risoluzione la questione meridionale. E anche nel secondo dopoguerra non è mancato, nella storiografia e nella narrativa meno sospettabili di indulgenze e connivenze nei confronti della dittatura, il riconoscimento verso alcune opere portate a compimento, vedi la bonifica delle zone più paludose. Ok. Ma la filosofia economica fondativa del fascismo, basata sull’Italia strapaesana e sulla ruralità, prima ancora che sul corporativismo, tutto poteva essere tranne che un trampolino di lancio per la Bassa Italia.

Già il Sud aveva patito le micidiali conseguenze del protezionismo, introdotto nel 1887, su iniziativa del salernitano Agostino Magliani (1824-1891), che sarà bollato come ministro della finanza allegra, lui che era stato un seguace di Quintino Sella (1827-1884), ministro della lesina. Il protezionismo, ossia l’innalzamento delle barriere doganali contro i prodotti esteri, strozzerà nella culla la neonata industria agroalimentare del Meridione, che non riuscirà più ad esportare la sua frutta oltre frontiera proprio a causa delle ritorsioni dei Paesi europei contro le misure economiche del governo italiano. Cosa farà il fascismo decenni dopo? Sostituirà il vocabolo protezionismo con la parola d’ordine autarchia, ma la sostanza non cambierà. Anzi.

La questione meridionale si aggraverà nei suoi fondamentali anche perché il regime disincentiverà il fenomeno dell’urbanesimo, scoraggerà la propensione a trasferirsi dalle città alle campagne. E pensare che l’Italia del Nord deve la sua fortuna, il suo sviluppo, proprio all’exploit della cittadinanza comunale, che segna, nei secoli, una spettacolare inversione di rotta nei riguardi del feudalesimo e del sottosviluppo economico-culturale ad esso collegata.

La civiltà degli scambi, l’esplosione del commercio, l’avvento dell’industria sarebbero rimasti nel libro dei sogni se non si fosse realizzata la rivoluzione urbana, basata sul maxi-esodo dai campi verso gli agglomerati cittadini. Il Sud, invece, rimarrà ancora prigioniero del latifondo, dei suoi feudatari e dei suoi gabellotti, che in alcune regioni faranno letteralmente da padrini al battesimo e alla comunione dei sodalizi criminali. Il fascismo, in soldoni, perpetuerà la sudditanza del Sud preferendo la società contadina e preindustriale alla società industriale e tecnologica, anteponendo l’aratro ai macchinari delle fabbriche.

Pur di alzare un muro contro gli sbarchi nelle città, il fascismo varerà regolamenti urbanistici ed edilizi sempre più restrittivi. L’intransigenza (1942) dei piani regolatori non sarà ispirata da logiche proto-ambientalistiche, ma dal retropensiero, nemmeno tanto defilato, di ostacolare, da sùbito, l’approdo delle masse contadine nei comuni più affollati. Tutto ciò in ossequio alla concezione ruralistica ed autarchica del regime.

Inevitabile che il Mezzogiorno pagasse un conto assai salato per colpa di una linea economica ostile allo sviluppo delle città e alla parallela avanzata della società industriale.

Che l’urbanesimo abbia fatto da lievito al boom socio-economico è la storia a testimoniarlo, a dispetto di tutte le teorie pronte a negare ogni evidenza. Che il Mezzogiorno paghi ancora oggi il prezzo di molte scelte controproducenti, è sempre la storia ad avvalorarlo. Di conseguenza, piuttosto che discutere di fascismo e antifascismo, manco fossero due squadre di calcio pronte ad eccitare le rispettive tifoserie, sarebbe forse opportuno entrare nel merito dei problemi di oggi, acuiti dalle decisioni di ieri. Forse ci si accorgerebbe che scelte come localismo e ruralismo, partorite dal fascismo, meritino di essere combattute e fermate anche adesso, e senza sconti, non foss’altro perché hanno impedito al Mezzogiorno di vedere le nuove frontiere degli scambi e della ricchezza, e perché hanno impedito a qualche area depressa del Nord medesimo di essere al passo dei vicini più fortunati. Tutta per colpa di una società rurale esaltata nonostante le sue congenite arretratezze. Il fascismo è stato anche o soprattutto questo: la sublimazione dell’Italietta ostile al mercato e a quella cittadinanza che, invece, tanto bene avrebbero potuto fare per il Mezzogiorno.

Un faro su fascismo e Mezzogiorno. Tanto buio per colpa del ruralismo

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