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Il 10 marzo scorso è stato ufficializzato un cambiamento profondo negli equilibri del mondo, maturato ovviamente nel corso del tempo e delle scelte compiute da grandi protagonisti della scena mondiale. Iran e Arabia Saudita hanno deciso di riaprire le proprie ambasciate, tornando ad avere relazioni diplomatiche bilaterali e di farlo non certo in un luogo indifferente, ma a Pechino. Di questo si occupa sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica padre Vladimir Pachkov, divenuto nel corso degli anni della sua collaborazione con la rivista dei gesuiti un importante studioso degli sviluppi asiatici, sempre attento a cosa succede nella variegata realtà islamica.

Il taglio dell’articolo non gli ha consentito di informarci anche dello spacco da capogiro che caratterizzava l’abito con cui si è presentata al mondo la nuova Miss Arabia Saudita, ovviamente senza alcun velo sul volto e tanto meno sui capelli, ma anche questo è parte del dirigismo post-wahhabita del principe saudita bin Salman, uno dei punti attorno a cui ruota la novità di cui l’articolo dà conto con profondità, non tradendo il taglio che l’autore annuncia quasi subito: “La decisione di ripristinare le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, che in definitiva erano considerati nemici giurati, è naturalmente importante di per sé ma, considerando che Iran e Arabia Saudita avevano già rotto più volte le loro relazioni diplomatiche, per poi ripristinarle, appare ancora più importante che l’accordo sia stato raggiunto con la mediazione dei cinesi, rappresentando un segno chiaro dello spostamento dei poteri a livello globale. Perciò, qui non parleremo soltanto dei rapporti tra i due Paesi del Medio Oriente, ma anche del ruolo della Cina nella regione, oltre che delle implicazioni dell’integrazione incipiente dell’Iran, ma in particolare dell’Arabia Saudita, nel progetto euroasiatico guidato dalla Cina”.

Il ruolo della Cina appare decisivo per chiunque lì voglia immaginare il futuro, ma lo troviamo rappresentato al meglio da un importante episodio del lontano passato cinese. In pagine straordinarie la racconta Michel Schuman nel suo volume sulla Cina, “L’impero interrotto”. Riferisce della grandiosa accoglienza riservata all’ammiraglio della nuova dinastia cinese, i Ming, che nel XV secolo scelse Aden (il porto yemenita) per la sua prima sosta alla testa di un enorme flotta, ovviamente pacifica, che annunciava il ritorno cinese dopo l’epoca dei “barbari”. L’importanza di Aden riguardava una rotta commerciale cruciale per Pechino, e che giungeva fino al Corno d’Africa.

Così non stupisce che il primo terreno di sviluppo positivo della “pace” avviata da Iran e Arabia Saudita a Pechino riguardi, con progressi positivi e rapidi, proprio lo Yemen. Ma prima di dirci dove e come la Cina voglia esercitare questo suo nuovo ritorno, l’autore ci spiega come Iran e Arabia Saudita si siano guardati, studiati, capiti e scontrati nel passato recente. Nello scontro ha svolto un ruolo la Gran Bretagna del tempo ed è molto interessante capirlo. A inizio Novecento, quanto nacque il regno dei Saud, entrambi i Paesi erano nell’orbita britannica. Proprio per queste si archiviarono le divergenze sull’indipendenza del Bahrein, sebbene Tehran non ne fosse convinta.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale Londra è stata sostituita da Washington: “Fino agli anni Settanta, l’Iran e l’Arabia Saudita erano i pilastri del sistema di sicurezza americano nel Medio Oriente e stretti alleati”. Una frase decisiva, che l’autore stesso subito dopo spiega così: “Questa dinamica può anche spiegare come mai adesso la Cina sia riuscita a far avvicinare i due Paesi. Dato che la Cina già ora è un rivale alla pari (peer competitor) degli Stati Uniti, essa ha offerto un’alternativa a entrambi, e ha portato al cambio di corso dell’Arabia Saudita, che si è allontanata dall’alleanza con gli Stati Uniti, rivolgendosi appunto alla Cina. Ciò ha spinto l’attuale principe ereditario Mohammed bin Salman ad avvicinarsi all’Iran, che dal 1979 è un rivale degli Stati Uniti”.

Qui, a mio avviso, l’autore indica il fallimento della strategia obamiana, che ha tentato il cambio di alleanza, guardando a Teheran e non più a Riad proprio per sottrarre Tehran all’amicizia cinese e legarla al sud est asiatico, con l’esito che qui ci presenta. Pechino, ma sembra ci dica, ha saputo offrire garanzie a entrambi, non a uno solo.

Qui padre Pachkov ci riporta allo scontro, acuitosi non dopo la rivoluzione iraniana, ma dopo il successivo “golpe” khomeinista, la cattura degli ostaggi all’ambasciata americana americana, il 4 novembre 1979 , che disarcionò il primo ministro Bazargan, in buoni rapporti anche con Riad, e indusse i sauditi ad avvicinarsi all’Iraq e a Saddam Hussein, sempre di più. La guerra Iran-Iraq confermò l’avvicinamento. “Nell’agosto del 1987 si giunse a un incidente tra le forze di sicurezza saudite e dei pellegrini che avevano organizzato una manifestazione. La conseguenza fu la morte di 400 pellegrini, 287 dei quali erano iraniani. Ne seguì la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi“. Solo la liberazione del Kuwait dall’invasione irachena ne consentì il ripristino. I rapporti rimasero buoni fin dopo il 2003, per padre Pachkov è importante capire perché nel 2008 si guastarono: “Si può supporre che uno dei motivi fosse il cambiamento della politica americana nella regione. Nel 2008 gli Stati Uniti avevano firmato un accordo con il governo iracheno, secondo il quale le forze armate americane avrebbero dovuto lasciare l’Iraq entro il 31 dicembre del 2011. In questo modo, l’Iraq non era più un Paese occupato o una zona cuscinetto tra l’Iran e l’Arabia Saudita, ma un Paese sempre più vicino all’Iran. L’Arabia Saudita si è sentita minacciata da questo accordo. Contemporaneamente, nella prospettiva iraniana, era l’Arabia Saudita ad aver sempre appoggiato la resistenza sunnita in Iraq”.

Interessata a quella regione dai tempi della dinastia Ming, la Cina dopo il 1970 è tornata, soprattutto considerando il suo fabbisogno energetico: “L’importanza della regione per la Cina è aumentata quando, nel 1993, il Paese fu costretto a importare petrolio. Nel 2013 la metà delle importazioni cinesi di greggio proveniva dalla regione del Medio Oriente. Inoltre, essa costituiva un mercato importante per le esportazioni della Cina. I cinesi erano impegnati in molti progetti, dalla costruzione delle infrastrutture per i trasporti nelle città di pellegrinaggio dell’Arabia Saudita fino ai bacini idrici in Iran. L’interesse per la regione è coinciso anche con progetti come la Saudi Vision 2030, dove la Cina doveva aiutare a sviluppare energie rinnovabili, tecnologie spaziali, Internet 5G. Gli investimenti nella regione sarebbero stati integrati nel progetto Bri”, la via della seta. Oggi la Cina ha un trattato di cooperazione venticinquennale con Tehran ed è il primo partner commerciale dei sauditi, con un incremento di 154 volte rispetto all’interscambio del 1991. “Nel 2016 la Cina e l’Arabia Saudita hanno sottoscritto un accordo per una collaborazione strategica globale (Comprehensive Strategic Partnership). Oltre all’Iran e agli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita è l’unico Stato del Golfo ad avere questo status”.

Siamo così alle conclusioni: “Ciò che la politica cinese mostra è che questo Paese è capace di muoversi su due fronti – in questo caso con l’Iran e l’Arabia Saudita –, anche quando essi sono nemici tra loro. Nei rapporti con l’Iran e l’Arabia Saudita, la Cina ha evitato di privilegiare o di svantaggiare l’una o l’altra parte. Ci sono molti esempi di questa politica”. E quindi arriva a dirci che “questo approccio calibrato, ma anche la filosofia secondo cui lo sviluppo economico deve costituire il fondamento della sicurezza e il principio di non interferire negli affari interni degli altri Paesi, hanno avuto come risultato l’accordo tra l’Iran e l’Arabia Saudita”. I punti che da noi hanno maggiormente coinvolto, dall’assassinio ordinato dal principe saudita bin Salman  in un consolato del suo Paese del giornalista americano-saudita Jamal Khashoggi alla rivoluzione “donna, vita libertà”, nell’agenda cinese non sembrano presenti.

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