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Per rivitalizzare un’Europa anemica, sostenevo in un mio libro del 2020, servono interventi strutturali capaci di rilanciare produttività e crescita in un mondo che è in grande cambiamento. La buona notizia è che nel clima pre-elettorale che stiamo vivendo si sta diffondendo l’analoga convinzione che l’Europa si trova oggi ad affrontare un tale ritardo rispetto a Cina e Stati Uniti da rendere indispensabile un progetto che introduca modifiche alla sua governance, assieme ad una strategia di investimenti nei settori che guidano la competizione internazionale.

Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta ha autorevolmente detto che la dimensione degli interventi necessari per conseguire economie di scala e generare benefici per tutti i paesi è di circa 800 miliardi l’anno, mettendo assieme i 620 miliardi di euro che servono per le politiche climatiche, i 125 per la transizione digitale e i 75 per rispettare gli impegni sulla difesa presi in sede Nato. Un programma che per la sua portata richiede di impegnare il bilancio della Ue anche si si trattasse un terzo o un quarto della spesa totale.

Lo si potrebbe affrontare, chiarisce il governatore, con emissioni obbligazionarie comuni che permetterebbero di creare un titolo europeo privo di rischio. Ed è senza dubbio un disegno importante ed attraente anche per le sue implicazioni sul mercato dei capitali. Ma non sfugge ad alcuno la riluttanza dei Paesi frugali a sottoscrivere debito comune. In particolare, un recente documento della Lega Anseatica 2.0, la coalizione informale degli otto Paesi Baltici (13,7% del Pil europeo) guidati dall’Olanda, ha messo in discussione le politiche industriali e interventiste sostenute soprattutto da Germania e Francia fatte di aiuti di stato diretti a contrastare le politiche ancor più interventiste di Usa e Cina.

Il documento sostiene che quest’approccio dirigista finisce per distorcere la parità di condizioni sul mercato per tutti i paesi Ue e con l’indebolire i fondamentali dell’economia europea. Il documento è emblematico dell’insofferenza dei Paesi del nord per quel l’interventismo che oltre a trascurare i vincoli di bilancio confida prevalentemente sugli investimenti pubblici per ridare tono alla crescita. Ed è certamente vero che, alla luce del cambiamento radicale del quadro geoeconomico e geopolitico che stiamo vivendo, serve una strategia per competere alla pari con Cina e Stati Uniti i due grandi poli dell’economia mondiale, come d’altra parte suggeriscono gli interventi di Mario Draghi.

Ma è anche vero che si può realizzare la stessa strategia puntando anziché su una spesa dall’alto su un programma di sostegno agli investimenti privati sul modello di quello adottato, con successo a suo tempo da Juncker, con il sostegno, a garanzia, della Bei. Dal successo di questo programma si può trarre motivo per emissioni obbligazionarie per sostenere investimenti che rimedio ai fallimenti di mercato, inevitabilmente legati alle politiche climatiche e a quelle per riportare l’economia europea sulla frontiera della tecnologia.

C’è molto bisogno di investimenti pubblici sull’innovazione. Basta pensare che secondo l’International Energy Agency, in Europa i sussidi per l’energia sono del 150% maggiori della spesa pubblica in R&D. E questa circostanza finisce per influenzare l’adozione delle tecnologie low-carbon a favore di quelle esistenti invece di quelle innovative, decisive per produttività e sviluppo.

All'Europa serve più Europa. Paganetto spiega perché

Inutile negarlo, alla luce del cambiamento radicale del quadro geoeconomico e geopolitico che stiamo vivendo, serve una strategia per competere alla pari con Cina e Stati Uniti i due grandi poli dell’economia mondiale. E in questo senso Fabio Panetta ha ragione. Ma attenzione al fattore frugali. Il commento di Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Economia Tor Vergata

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