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“Se fossi nato nel 1925 e ventun anni dopo, nel 1946, avessi trovato in una cabina elettorale la scheda referendaria per scegliere tra monarchia e Repubblica, non avrei avuto neanche un attimo di esitazione nel disegnare una x grande come una casa su Repubblica.” Questo pensavo da ragazzo, dopo i miei primi incontri ravvicinati con la Storia contemporanea nelle aule scolastiche. E così, dopo aver accolto il senso del vivere in democrazia, grazie anche ad un’eccellente maestra romagnola che aveva conosciuto in via diretta il cortocircuito fascio-monarchico, non avevo più dubbi sulla forma-Stato preferita. Non riuscivo a capire, infatti, come si potesse tollerare un capo di Stato non scelto dal popolo ma insediato nel trono perché figlio di un altro personaggio capitato lì con lo stesso criterio: “ius sanguinis”, come si dice per far vedere che si conosce il latino.

Insomma: la monarchia in un contesto democratico porta con se’ un retrogusto medievale, un che di patrimoniale, di “Dio me l’ha data e guai a chi la tocca”, riferito alla corona, qualcosa che sposta il principio della sovranità dal popolo al re. Questo pensavo da ragazzo. E, devo dire, non ho cambiato idea più di tanto: a parte tutto, se nella linea dinastica s’inciampa in un re (o regina, par condicio) inadeguato, insufficiente, inadatto al ruolo ma non così palesemente da essere destinato all’interdizione, che succede? Si mette lo scranno più alto dello Stato sotto le venerabili pudenda di un imbecille, o peggio? Le monarchie contemporanee, si dirà, almeno nel continente europeo, assegnano al re solo un ruolo esornativo, notarile nella politica interna, che poggia solida su democrazie parlamentari, mentre in politica estera gli viene assegnato il compito di rappresentare la nazione nel mondo recando con se’ tutta la gamma delle antiche nobiltà di cui la sua dinastia è portatrice.

Insomma, la politica la fa il primo ministro con il suo governo e la sua maggioranza parlamentare. E allora il resto cos’è, folklore? Queste domande mi sono tornate alla memoria incrociando i tormentoni che la tv di Stato, non diversamente dalle altre, sta mandando in onda per annunciare l’evento dell’incoronazione di Carlo III. Impressiona la scansione dei giorni che ci separano dal giorno fatidico, annunciata alla maniera dell’attesa del festival di Sanremo (-15, -14, eccetera), o dei secondi che separano dal nuovo anno la notte del 31 dicembre, con stappo finale dello champagne.

Sorprende la pervasività guardona che viene incoraggiata, con i doviziosi particolari sulla nuova regina, gli inevitabili remember su Lady Diana, la morbosità gossipara sul figlio scapestrato e la di lui signora. Si annunciano dirette e non stop con uno sciupio di commentatori, privilegiando ovviamente quelli che hanno fatto almeno un soggiorno di qualche settimana a Londra per imparare l’inglese e poi hanno scritto un libro fondamentale con pochi cenni sul mondo. Britannico, ovviamente. È una specie di full immersion (lo diciamo in inglese, of course) nell’anticamera della parrucchiera con la collezione completa di Novella 3000 e consorelle testate di Cairo. Tutto questo farà pure bene all’immagine della famiglia Windsor, rimpinguerà con il flusso dei turisti (non quello dei migranti, deportati dal governo in Ruanda) le casse inglesi con sterline sonanti e scalderà i cuori dei sudditi agee del Commonwealth, ma, con tutto il rispetto, noi che c’entriamo? O, meglio ancora sarebbe da dire: la tv di Stato perché?

Guardo la sobrietà del nostro Capo di Stato, il Presidente Sergio Mattarella e confermo la mia antica opinione: sì, se avessi potuto votare per il referendum istituzionale avrei votato Repubblica. Decisamente.

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