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Sulle limitazioni di impiego delle armi a Kyiv, la parola finale spetta alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Anche se non lo dice esplicitamente, è questo il punto centrale che emerge dall’intervista rilasciata alla Stampa dall’Alto Rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell. Il giorno prima, intervenendo a Cernobbio, lo stesso Borrell si era espresso polemicamente sulla posizione di Roma, chiedendo retoricamente perché il nostro Paese non permetta alle forze armate ucraine di impiegare il materiale da noi fornito per colpire bersagli siti in territorio russo. Riprendendo con toni più marcati la linea espressa in modo più diplomatico dal presidente ucraino,7  Volodymyr Zelensky, intervenuto a sua volta a Cernobbio (dove ha anche avuto modo di incontrarsi in un bilaterale con Meloni). E attirandosi contro le critiche del partito di Matteo Salvini, che lo ha tacciato di “ingerenze illegittime” negli affari interni di un Paese sovrano.

Borrell si è anche soffermato sulle divisioni emerse sull’argomento all’interno della compagine dell’opposizione alla stessa kermesse dove aveva preso parte lui stesso, con il leader di Azione Carlo Calenda nettamente a favore del sostegno continuo a Kyiv e del via libera al rifornimento di armi a lungo raggio, a cui si contrappongono i leader del M5S Giuseppe Conte e del Partito Democratico Elly Schlein — contrari alla concessione di questi armamenti all’Ucraina. Una posizione molto più simile a quella dell’ungherese Viktòr Orbàn (anche lui a Cernobbio), come rimarca Paolo Mieli sulle pagine del Corriere della Sera.

Oltre il dibattito ristretto italiano, a migliaia di chilometri a est di Cernobbio, le dinamiche della guerra non si fermano. Mentre i russi concentrano le loro risorse nel Donbass, le forze di Kyiv rafforzano il controllo sui territori occupati nell’oblast di Kursk, avviando lavori di fortificazione che segnalano l’intenzione di non voler abbandonare il terreno conquistato in terra nemica, all’interno di un’operazione realizzata oltrepassando, per l’ennesima volta, una delle tante linee rosse di questo conflitto.

Oltre a rafforzare le difese, gli ucraini lanciano attacchi in profondità contro bersagli russi. Si tratta di colpi duri per Mosca, non solo sul piano tattico del conflitto, ma proprio per la stabilità strategica del regime. Anche per questo non serve mollare il sostegno a Kyiv.

Sabato, il 7 settembre, un attacco condotto con sistemi unmanned ha distrutto un deposito di armi russo nei pressi di Voronish, a un centinaio di chilometri dal confine ucraino, che conteneva missili Iskander e altri vettori di produzione nordcoreana. Simili azioni potrebbero essere realizzate con maggiore efficienza sostituendo i droni, capaci di portare un carico esplosivo relativamente limitato, con missili balistici come gli Atacms e gli Himars, il cui impiego contro bersagli russi siti in territorio ucraino si è già dimostrato estremamente efficace in passato.

“Con quei missili saremmo in grado di distruggere le retrovie russe, interrompere le loro linee logistiche, limitare i rifornimenti alle trincee” sono le parole dell’ex-colonnello ucraino, oggi analista militare, Oleh Zhdanov, riportate che parla oggi al CorSera. Zhdanov attacca i limiti imposti dagli alleati occidentali all’impiego di queste armi in territorio russo, affermando che ci siano ben duecentocinquanta bersagli militari di rilievo all’interno del raggio d’azione delle armi sopraccitate. Zhdanov chiede a gran voce più equipaggiamento, dagli F-16 e dai missili ai sistemi contraerei e a quelli per la guerra elettronica. Ma soprattutto, chiede meno limiti nel loro utilizzo. “Non possiamo continuare a morire per paura di vincere”.

E mentre la guerra continua, continuano anche le discussioni su un eventuale negoziato. Lo stesso giorno dell’attacco al deposito di Voronish, Zelensky ha annunciato un piano di pace che presenterà il prossimo novembre, piano che potrebbe coinvolgere anche la Russia. Inutile a dirsi, la questione centrale del negoziato rimarrà quella territoriale: Kyi è disposta a cedere territori in cambio della pace? E se sì, in che percentuale? Vai la pena ricordare che prima dell’invasione su larga scala, lo stesso Zelensky si posizionava come promotore di un negoziato che ponesse fine alle ostilità nella cosiddetta “guerra a bassa intensità” in corso in Donbass, così da potersi concentrare sull’integrazione dell’Ucraina nelle strutture euroatlantiche. Anche a costo di rinunciare a una parte dei territori. Da allora, la situazione è cambiata. E chissà se Zelensky, e con lui il popolo ucraino, sono disposti ad arrivare a un compromesso su certe tematiche.

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